Fino a pochi anni fa, una delle prescrizioni più frequenti dei medici inglesi era “Adt”. Serviva per tutto: artrosi, asma, emicrania… A patto che il malato non si accorgesse che non era un farmaco. L’Adt infatti era l’esatto opposto di un farmaco: una sostanza senza alcun effetto farmacologico, come acqua zuccherata, olio d’oliva, lattosio. La sigla Adt stava per “Any damned thing” ovvero “un accidenti qualsiasi”. Il farmacista lo sapeva e dava, a seconda di quel che aveva nel retrobottega, una pillola gialla, o uno sciroppo verde. Ma la cosa più strana era che il paziente guariva. Secondo le più recenti stime, la percentuale di efficacia dell’Adt variava dal 30% al 70%, a seconda delle malattie.
Miracoli?
Oggi i medici inglesi non usano più questa sigla, perché è ormai troppo nota, mentre una condizione indispensabile per l’efficacia dell’Adt è che il paziente creda davvero di prendere una medicina. Ma in tutto il mondo si continua, in modi diversi, a usare e prescrivere (e non solo a malati immaginari) queste sostanze inerti che vengono chiamate “placebo”. E che spesso curano meglio dei farmaci. Come mai? Incuriositi e stupiti dagli effetti “miracolosi” di questi farmaci che non sono farmaci, gli scienziati hanno studiato con molta attenzione il fenomeno. E sono oggi riusciti a scoprire i meccanismi, non solo psicologici, sui quali si basa. Hanno individuato un’enorme quantità di effetti terapeutici che possono essere favoriti da loro, scoperto la possibilità che, come i farmaci veri, diano effetti collaterali e persino accertato che fede religiosa, allegria, fantasia stimolano la guarigione utilizzando gli stessi meccanismi biochimici del placebo.
Non solo suggestione.
La spiegazione più ovvia è che il placebo (la parola deriva dal latino placere e significa “io piacerò”) funzioni grazie a un effetto psicologico. Chi è convinto di prendere un farmaco efficace, si lascerebbe cioè talmente suggestionare, da provare davvero effetti benefici, al di là della reale efficacia del farmaco. Il grado di suggestione (e conseguentemente di efficacia) dipenderebbe in gran parte anche dal modo in cui viene somministrato: per esempio dall’autorevolezza del medico o dalla sua capacità di comunicare al paziente fiducia nel farmaco. Ma il placebo, si è oggi scoperto, non agisce solo sulla psiche, influenza anche la biochimica del corpo.
Il legame mente-corpo.
Per gli antichi era ovvio che mente e corpo si influenzassero a vicenda: «Le passioni dell’anima sembrano essere collegate al corpo, mentre il corpo subisce modificazioni per la loro presenza», diceva Aristotele. Ma la moderna medicina occidentale, influenzata dal pensiero del filosofo francese Cartesio (che teorizzava la netta separazione tra mente e corpo) non ha mai preso in considerazione questo rapporto. Almeno fino a quando, pochi anni fa, Candace Pert, biochimico del National Institute of Mental Health di Bethesda, individuò nel cervello i meccanismi che legano psiche e corpo. In pratica una specie di serrature chimiche, chiamate recettori, nelle quali si adattano perfettamente, come chiavi, l’oppio e i suoi derivati, ma anche le endorfine, analgesici naturali prodotti dal corpo umano su “ordine” della psiche. Quando la chiave chimica giusta fa scattare la serratura, si provano sensazioni benefiche. Oggi una nuova scienza, la psiconeuroimmunologia, è impegnata a decifrare questo dialogo chimico che unisce la mente al corpo, dialogo che viene alterato dalle malattie ed è cruciale nella guarigione. «Cervello, sistema nervoso e sistema immunitario sono come tre amici che vanno a braccetto scambiandosi costantemente le informazioni più intime sul nostro conto», dice Pert. In pratica è come se, quando la psiche sa che sta arrivando un farmaco che ritiene efficace, avvertisse il corpo di prepararsi ai suoi effetti. E anzi lo costringesse ad anticiparli e a produrli, anche se il farmaco è inefficace a livello biochimico.
Serrature occupate.
A produrre gli effetti attesi, in questi casi, sono le endorfine: che stimolano il sistema immunitario contro aggressioni esterne, ne frenano gli eccessi nelle allergie, o fanno secernere gli ormoni sessuali o antiinfiammatori, le sostanze analgesiche o le molecole legate al benessere e al buon umore. La tecnologia disponibile non ci permette ancora di misurare con precisione le variazioni di produzione di queste sostanze nel tessuto cerebrale prima e dopo la somministrazione di un placebo, ma si stanno accumulando le prove indirette. I ricercatori hanno per esempio dimostrato che l’effetto analgesico di un placebo viene impedito somministrando naloxone, una molecola chimica che occupa (senza però farle “scattare” e quindi senza attivare i meccanismi di controllo del dolore) le stesse serrature del cervello che sono addette a ricevere le endorfine. In pratica quel che succede quando si somministra naloxone a una persona, è che questa sostanza occupa tutte le serrature disponibili. Le endorfine eventualmente prodotte dall’effetto placebo non possono così più farle scattare per trasmettere i loro “ordini” al corpo.
Attenti ai “nocebo”.
La suggestione vale anche per gli effetti collaterali. I pazienti trattati con placebo solitamente accusano anche i sintomi negativi attesi per i farmaci che i placebo sostituiscono: nausea, nervosismo, insonnia, costipazione. Perfino calvizie: è successo a un gruppo di pazienti oncologici colpiti da alopecia (caduta dei capelli) per un innocente placebo che credevano un chemioterapico. Si arriva addirittura all’effetto contrario, l’“effetto nocebo” (dal futuro del verbo latino nocere: “io nuocerò”). Come le aspettative positive hanno effetti benefici su psiche e corpo, così le aspettative negative hanno effetti dannosi. Ed è quasi sicuramente all’effetto nocebo che si devono i risultati scadenti di terapie in teoria efficaci, ma delle quali il paziente non è convinto, magari solo perché sono state prescritte da un medico nel quale non ha fiducia.
La prima cura è il medico.
Un ruolo importante lo hanno infatti anche le convinzioni del medico. La situazione ideale si verifica quando il medico crede nell’efficacia della terapia e comunica al paziente questa fiducia arricchita da attenzione, empatia e incoraggiamento. Una delle più evidenti prove dell’importanza del rapporto medico-paziente è uno studio del Massachusetts General Hospital di Boston: l’esito di un intervento di cardiochirurgia è molto meno favorevole nei pazienti che l’anestesista visita solo velocemente rispetto a quello dei pazienti cui dedica un approfondito colloquio. Mediamente, per questi ultimi si è riscontrata una degenza post-operatoria più breve di 2,6 giorni. Anche la religione, l’aiuto psicologico e il buonumore sono efficaci.
Le “magie” di Paracelso.
In fondo, però, tutto quanto si è scoperto sull’effetto placebo c’era già nella saggezza degli antichi. Ippocrate, Galeno, Paracelso non avevano antibiotici, e neppure analgesici. Avevano idee confuse su cuore e cervello, e non conoscevano il sistema immunitario e i virus. Eppure con tisane, estratti e intrugli, astri e un pizzico di magia, ma soprattutto tante parole, sono passati alla storia e la loro fama è immortale. Oggi la medicina dispone di un enorme armamentario tecnologico, ma ha perso la forza della parola, della suggestione, del rapporto con il paziente.