Siete al centro di un labirinto. Cercare di uscirne a tentativi sembra insensato: ogni corridoio si apre in altri meandri. Nessuno strumento può aiutarvi, né la bussola né la radio. Come fate a uscirne?
Il rischio? Girare in tondo
Il primo a studiare seriamente questo problema fu il matematico inglese William Rouse Ball, forse durante le passeggiate nel labirinto del suo giardino: la sua conclusione fu che basta poggiare una mano su una parete e, senza staccarla mai, camminare fino all’uscita. Aveva ragione, ma non nel 100 per cento dei casi: con questo trucco si corre infatti il rischio di girare in continuazione intorno a una parete isolata, come nel Blenheim Palace progettato da Adrian Fisher, un esperto mondiale nella costruzione di labirinti. La tecnica di fuga perfetta richiede che sia consentito lasciare tracce lungo il percorso, e fu trovata dal matematico francese Tremaux: si procede a caso fino a quando si arriva a un vicolo cieco oppure a una via già percorsa, e in tal caso si torna indietro e si imbocca, appena possibile, una via inesplorata. Se poi si ha a disposizione un computer, di algoritmi d’uscita se ne trovano a bizzeffe. Per esempio, si può riempire il labirinto d’acqua, virtualmente, con velocità uniforme, e poi ricostruire il cammino inverso della goccia che arriva per prima (basta marcare il centro con un “sensore”).
In Giappone durano di più
Questi trucchi si possono applicare a labirinti di tutti i tipi: percorsi circolari, triangolari, esagonali, a piani multipli, “aperti” (nel senso che se si esce da destra si rientra da sinistra) e così via. Ma quel che attira il pubblico non sono tanto le tecniche di soluzione, quanto il poter vivere di persona l’esperienza del labirinto, reale o virtuale che sia. Giochi elettronici come Doom o Prince of Persia, ambientati in labirinti, hanno avuto un grande successo anche per la sfida che lanciavano al senso dell’orientamento dei giocatori. nel gioco Diablo 2 è stato inserito un generatore casuale di labirinti che crea un percorso diverso a ogni nuova partita. L’elettronica non ha però soppiantato il fascino dei labirinti reali, fatti di siepi, cemento, legno, o addirittura acqua, come nel Parc de la Mer on Jersey, in Inghilterra. «Questa è l’epoca d’oro dei labirinti » afferma Fisher, autore di oltre 200 labirinti in 17 nazioni. «Il numero totale di labirinti aperti al pubblico nel mondo è quasi raddoppiato nell’ultimo decennio». Ce n’è per tutti i gusti: dal pavimento della Grace Cathedral di San Francisco, ai labirinti artistici dello scozzese Jim Buchanan, ai complicatissimi labirinti giapponesi, come quello di Funabushi, composto da più parti collegate tramite ponti per simulare una struttura tridimensionale. Sono proprio i giapponesi i più fanatici. «In Giappone» spiega Fisher «i “giocatori” si aspettano che la risoluzione di un labirinto duri quanto un film o una partita di calcio, mentre in Europa la gente preferisce uscirne in mezz’ora». L’arte di Fisher è proprio quella di far sì, usando la giusta quantità di crocevia, che tutti escano nello stesso tempo, minuto più minuto meno.
Simbolo universale. Ma perché i labirinti ci affascinano?
Forse perché sono presenti nei nostri ricordi ancestrali. Quello del labirinto, infatti, è un concetto antichissimo. Il primo, scoperto nel 1888, fu costruito dal faraone Amenemhet III a protezione della sua tomba, nel 1800 a. C. Secondo Erodoto, che lo visitò nel 450 a.C., era più complesso di “tutti gli edifici della Grecia messi insieme”! Poi c’è quello di Creta, il più famoso dell’antichità. Secondo la leggenda fu costruito da Dedalo ed era abitato dal Minotauro, ma più probabilmente si trattava del palazzo del re Minosse, nella città di Cnosso. Ne rimane testimonianza nel simbolo impresso sulle monete cretesi (un millennio più tardi): un intricato percorso, che porta inesorabilmente dall’esterno all’interno. Questo simbolo misterioso associato al labirinto, composto da sette avvolgimenti, ha forse origini ancora più antiche e potrebbe simboleggiare la Dea Madre o la scomparsa Atlantide, che secondo Platone sarebbe stata circondata da sette cerchi di terra e acqua. Di certo la figura comprende altri due simboli antichissimi, la croce e la spirale, ed è stata ritrovata nelle più diverse zone del pianeta: dall’Arizona precolombiana degli Hopi alle sabbie della pianura di Nazca, in Perù, fino all’isola di Sumatra, in Indonesia.
Trui
In Europa, il simbolo del labirinto non è associato solo a Creta, ma anche alla città di Troia, protetta da sette mura. Si è scoperto che i pastori del Galles tracciavano il simbolo nel prato, e lo chiamavano “Caerdroia”, che oggi gli studiosi interpretano come “Città di Troia” o “città delle svolte”. Secondo la leggenda, infatti, la Gran Bretagna prende il nome da Bruto, nipote di Enea, che la fondò insieme ai prigionieri che egli stesso liberò proprio da Troia. Un labirinto con la scritta “Trui” (Troia) è stato trovato anche su un vaso etrusco a Tragliatella, vicino a Cerveteri. Nel Medioevo il labirinto rappresentava Gerusalemme, la città sacra, e aveva sempre una croce al centro, come nella cattedrale gotica di Chartres, in Francia. Si pensa che i fedeli percorressero il tracciato, forse in ginocchio, come “surrogato” di un viaggio in Terrasanta. Nei secoli successivi, comunque, gli stessi labirinti furono utilizzati per danze o giochi simbolici, proprio come nei labirinti all’aperto, in Germania (per esempio ad Hannover) e in Polonia. In Inghilterra, invece, i labirinti all’aperto venivano usati anche per competizioni atletiche: nel XVIII secolo i giovani facevano a gara per raggiungere la fanciulla nel centro! In Norvegia, fino all’inizio del ’900, i pescatori camminavano lungo un labirinto immaginario prima di uscire in mare: lo scopo era quello di condurre i venti cattivi nel centro e qui intrappolarli.
Un viaggio interiore
Il fascino dei labirinti deriva quindi dal loro valore simbolico e tradizionale? Quel che è certo è che i labirinti sono usati da millenni come simboli di meditazione, di viaggio interiore. Trasmettono curiosità per l’ignoto: ciò che si troverà al centro
Onde cerebrali
Qualunque sia la risposta, quando cerchiamo di districarci in un labirinto, nel nostro cervello si propagano onde elettriche della frequenza di 4-8 oscillazioni al secondo, le cosiddette “onde teta”. In genere l’attività del cervello appare come una serie confusa di impulsi. Ma ogni tanto i segnali si amplificano e formano oscillazioni ben distinte. «Le onde teta compaiono quando gli animali eseguono particolari compiti spaziali, motori e cognitivi» spiega Micheal J. Kahan del dipartimento di neurochirurgia del Children’s Hospital di Boston, Usa. Queste onde poco conosciute viaggiano un po’ in tutto il cervello, ma principalmente nell’ippocampo, la zona della navigazione spaziale.Fino a poco tempo fa erano state osservate solo nei topi, perché per gli esperimenti è necessario applicare gli elettrodi direttamente alla corteccia cerebrale. Sembrava impossibile farlo con l’uomo. Ma l’anno scorso Kahan ha trovato una soluzione: perché non chiedere la collaborazione di pazienti epilettici gravi, che a causa della malattia devono comunque avere tali elettrodi? Sotto l’occhio degli scienziati, i pazienti hanno risolto vari labirinti elettronici, prima seguendo frecce indicatrici, poi senza più aiuti. «Abbiamo osservato che le onde teta sono davvero collegate a questo tipo di attività cerebrale, e appaiono essere tanto più frequenti quanto più complessi sono i labirinti» conclude Kahan.
Domanda finale: quale famoso labirinto è rappresentato nell’immagine del post?