Il verde dello smeraldo e il rosso lucente del rubino? Sono semplicemente frutto di impercettibili impurità. Le due gemme, infatti, hanno composizione chimica differente, ma se fossero pure sarebbero entrambe trasparenti. E’ dunque solo l’intrusione di qualche atomo di cromo (circa uno ogni centomila) che genera in essi il colore: gli atomi estranei, infatti, assorbono tutti i colori della luce meno uno, quello che noi vediamo. Le impurità, però, agiscono in modo diverso a seconda del campo elettrico interno della gemma. Ecco perché in un caso si genera il verde e nell’altro caso il rosso.
La luce prosciugata
Nello stesso modo, cioè con processi che coinvolgono una parte minima degli atomi, nasce la maggior parte dei colori che ci circondano. Gli oggetti opachi, per esempio, hanno una sottilissima pellicola superficiale che si comporta esattamente come un filtro: trattiene la maggior parte della luce e riemette soltanto una “porzione” del raggio. Questa porzione impoverita viene captata dai nostri occhi, trasmessa al cervello e infine interpretata come colore. La luce, infatti, è costituita da una miscela di radiazioni di varia frequenza, come si può notare scomponendo un raggio luminoso attraverso un prisma (il primo a farlo fu Isaac Newton). Alcune di queste frequenze corrispondono ai colori; altre, come i raggi ultravioletti o gli infrarossi, sono invece invisibili ai nostri occhi. Più in generale, quando la luce colpisce un oggetto possono verificarsi quattro situazioni: 1) Tutta la luce viene assorbita: la sostanza appare nera. 2) Tutta la luce viene riflessa: la sostanza si comporta come uno specchio. 3) Tutta la luce viene trasmessa: la sostanza è trasparente. 4) Una parte della luce viene riflessa, una parte viene assorbita (contribuendo a scaldare il corpo), e una parte viene riemessa con la stessa lunghezza d’onda: è il colore dell’oggetto.
Bastoncelli e coni
La sensazione di colore, d’altra parte, dipende anche dagli organi umani legati alla visione, ovvero la retina e la corteccia cerebrale. Nella retina ci sono due varietà di cellule: i bastoncelli e i coni. I primi sono sensibilissimi alla luce, ma non ai colori, e quindi sono particolarmente utili nella visione notturna. I secondi si suddividono in tre famiglie che contengono tre diverse proteine sensibili rispettivamente al rosso, al verde e al blu. Quando queste proteine vengono colpite da luce della giusta lunghezza d’onda, “si eccitano” e trasmettono un segnale elettrico al cervello. Ben il 30 per cento della corteccia cerebrale lavora per decodificare questi segnali visivi (contro il 3 per cento destinato ai segnali uditivi), anche se non è ancora chiaro come si svolga il processo, e alcuni fenomeni risultano inspiegabili.
C’è un esperimento facilissimo da fare a casa. Basta illuminare uno schermo con due fari, uno rosso e uno bianco, e mettere una mano davanti alla luce rossa: l’ombra dovrebbe essere bianca su sfondo rosa, perché tutta la luce bianca continua ad arrivare sullo schermo. Invece si vede un’ombra azzurra, perché l’occhio si fa influenzare dal colore adiacente. E’ dunque anche una questione di abitudine, di esperienza: il cervello “sa” che le ombre sono scure, e non accetta di vederle bianche. L’esperienza ha anche il merito di farci vedere i colori sempre uguali, sia alla luce di una candela (1500 gradi: luce con alto contenuto di rosso), sia sotto una lampadina (2200 gradi: luce più giallastra), sia all’aperto (il sole, circa 6000 gradi alla superficie, emette luce con abbondanza di giallo-verde). In ciascun caso gli oggetti illuminati cambiano colore, ma l’occhio compensa la variazione facendo una specie di istantaneo confronto di tutto quello che vede, e ricostruendo così i colori abituali. Questo non avviene con la luce al neon: se si compra una cravatta, si esce dal negozio per controllare qual è il colore autentico, la spiegazione è che la luce al neon contiene sì alcune frequenze che sommate danno il bianco, ma non contiene l’intero spettro dei colori: l’occhio, così, si trova spiazzato e non riesce più a fare le necessarie correzioni.
Scimmie daltoniche
I nostri tre tipi di coni sono il minimo necessario per una visione completa dei colori: ogni sfumatura può essere infatti generata sommando dosi opportune di tre colori “primari” (cioè tali che la loro somma in parti uguali dia il bianco). L’occhio umano è quindi attrezzato per distinguere tutte le tinte della natura, ma non è sempre stato così. Qualche anno fa, infatti, si è scoperto che i nostri più scimmieschi antenati avevano una visione dei colori piuttosto limitata: le due proteine sensibili al rosso e al verde, infatti, sono prodotte grazie a due geni praticamente identici (al 98 per cento), che secondo i genetisti devono essersi differenziati in tempi relativamente recenti… circa 40 milioni di anni fa. Prima di allora, probabilmente, le protoscimmie non distinguevano con chiarezza il colore del sangue da quello del fogliame.
Energie proibite
Per quanto riguarda i meccanismi di formazione del colore, resta da spiegare in che cosa consista l’assorbimento (nonché la riemissione) delle onde luminose da parte della materia. Tutto dipende da alcuni divieti in vigore nel mondo microscopico: ogni atomo ha una serie di livelli energetici permessi, e può quindi aumentare la sua energia soltanto a “balzi”, come se salisse una scala. Fermarsi a metà di un gradino è proibito dalla natura, proprio come è proibito all’acqua di scorrere verso l’alto. Di conseguenza, dal momento che ogni colore corrisponde a un’energia ben precisa, ogni sostanza può assorbire solo alcuni colori (a parte gli oggetti neri, che assorbono tutto), mentre i rimanenti colori vengono espulsi dopo una serie di “rimbalzi” e sono percepiti dai nostri occhi come miscela di colori ormai ben diversa dal bianco di partenza. L’energia catturata dagli atomi del materiale, invece, si trasforma in calore.
Lascia una risposta