Ma è proprio tutto nella lingua? No, i sapori si colgono anche in altri modi. Insospettabili.
È il senso che si sviluppa più velocemente e ci consente le prime esplorazioni del mondo: non a caso i bambini piccoli prima ancora di guardare, tastare o annusare un oggetto lo mettono in bocca. L’evoluzione d’altronde ci ha fornito il gusto proprio per permetterci di distinguere fin dall’inizio le cose nutrienti (che sono in genere dolci) da quelle velenose (spesso amare). È insomma un senso studiato per la difesa, dal funzionamento semplice ma efficace. E, tutto sommato, poco raffinato: a differenza di quanto generalmente si pensa, il gusto non è infatti il senso dei sapori. Consente di sentire solo quattro sfumature fondamentali (dolce, amaro, aspro e salato). Il resto delle sensazioni che nel linguaggio comune attribuiamo a questo senso dipende invece dall’olfatto, dal tatto, perfino dalla vista. Forse per queste ragioni era finora anche il senso meno studiato dalla scienza. Un grave errore. Oggi gli scienziati stanno scoprendo che è molto più importante di quanto si pensasse, che varia da persona a persona, che esistono addirittura tre tipi di “gustatori” diversi e che appartenere all’uno o all’altro tipo può cambiare la vita: per esempio rendere alcolizzati, obesi, o magri e sani. A differenza della scienza, la natura ha sempre dato molta importanza al gusto. Dai batteri all’uomo, tutti hanno un tipo di gusto per riconoscere gli alimenti dalle sostanze immangiabili: questione di sopravvivenza. Anche i batteri apprezzano il dolce e sospettano dell’amaro. «Perché il dolce in natura è sinonimo di energia: gli zuccheri vengono bruciati molto fa-cilmente, e fanno bene a tutti gli organismi», spiega Paolo Pelosi, docente di analisi dei prodotti alimentari all’università di Pisa. «Mentre l’amaro forse è sgradevole perché molte sostanze naturali amare, come gli alcaloidi, sono anche tossiche».
Un cibo sembra più buono se il corpo ne ha bisogno
Questo non significa che il gusto sia uguale in tutti gli esseri viventi: gli insetti hanno cellule (sulle antenne) che reagiscono al contatto con l’acqua distillata, come se questa, priva di sapore per l’uomo, per loro lo avesse. Con il gusto la natura ha creato anche un meccanismo automatico per soddisfare i bisogni del corpo. «Una persona con carenza di sodio », spiega Jean Didier Vincent, direttore dell’unità di neurobiologia dell’Istituto francese della sanità e della ricerca medica, «sentirà il bisogno e consumerà con avidità un cibo in salamoia, giudicato ripugnante da un individuo normale. Allo stesso modo chi manca di una vitamina o di un particolare amminoacido, avrà voglia di gustare sapori di alimenti che li contengono ». Non è un caso, insomma, se il gusto è anche il primo senso sviluppato dai neonati (che nascono invece praticamente ciechi). Jacob Steiner, neurologo statunitense, ha registrato con una cinepresa le reazioni di bebé nati da quattro ore all’applicazione sulla lingua di soluzioni zuccherine, acide o amare. Al dolce tutti, senza eccezioni, facevano seguire una mimica di soddisfazione, sorriso e movimenti di suzione. All’amaro arricciavano il naso e sbattevano gli occhi. All’acido tiravano fuori la lingua con espressione di disgusto.
In che cosa consiste il gusto?
In realtà, anche se le sensazioni gustative sono pressoché infinite, si ritiene che bastino pochi gusti primari per descrivere anche i sapori più complessi. Gli attuali modelli propongono quattro gusti-base: dolce, salato, acido e amaro. Non che tutti siano d’accordo su questa semplificazione. I giapponesi, per esempio, sostengono che ci sia un quinto gusto, che chiamano “umami” e che corrisponderebbe al “sapore di brodo” o, meglio, al glutammato. Tutti concordano però su una definizione: il gusto, insieme all’olfatto, è una percezione della chimica del mondo. La differenza principale tra i due sensi è che l’olfatto percepisce le sostanze volatili, mentre il gusto quelle solubili nell’acqua. O, meglio, nella saliva.
Sette europei su dieci non avvertono un certo tipo di amaro
I sensori della chimica del gusto sono i “corpuscoli gustativi”. Attorno alle papille, le piccole protuberanze della lingua, sono presenti dei solchi, come calici di fiore, adatti a trattenere la saliva. Sulle pareti di questi calici sporgono le gemme gustative, sensori simili a ciglia, disposte a ciuffi: su ognuna di esse si trova un corpuscolo gustativo, cioè un recettore del sapore. La saliva riempie i solchi, portando le molecole che vi sono disciolte a contatto con i corpuscoli. Le componenti chimiche del cibo si legano così ai corpuscoli: alcuni sono specializzati a cogliere il dolce, altri l’aspro, altri ancora il salato o l’amaro. Lo stimolo chimico (molto labile: basta un bicchiere d’acqua per spazzarlo via e cancellare la sensazione) viene convertito da questi corpuscoli in energia elettrica, un segnale adatto cioè a viaggiare sui nervi e raggiungere il cervello. Poi inizia un passaparola piuttosto complesso: ogni corpuscolo gustativo (e nella lingua umana ce ne sono circa 2 mila) è innervato da una cinquantina di fibre nervose, ognuna delle quali riceve informazioni da almeno 3-5 gemme (sulla lingua ce ne sono 9 contiene le informazioni sensoriali viaggia lungo tre nervi, il glosso faringeo, il trigemino e il vago, fino al bulbo, alla base del cervello (dove si trova il centro della salivazione: per attivarlo basta anche una sola parola, è il caso della classica acquolina in bocca). Da qui l’informazione prosegue verso il talamo e la corteccia “somatosensitiva”: basta una lesione in quest’area cerebrale per perdere parzialmente o completamente il senso del gusto. Il gusto non è però uguale per tutti. Anzi: non ci sono due lingue uguali, proprio come accade per le impronte digitali. Le gemme gustative sono diverse per numero e per sensibilità da individuo a individuo. Ciascuno, insomma, ha una sua soglia di percezione, non migliorabile. Si è per esempio scoperto che un composto chimico, il feniltiocarbamide (detto ptc), risulta amaro per sette indoeuropei su dieci e insapore per gli altri tre.
Con il raffreddore, la pesca somiglia alla pera, la carne ai cavoli
Questa incapacità di percepire il sapore del ptc è ereditaria e si manifesta quando viene trasmessa da entrambi i genitori. Uno studio più recente (condotto dalla statunitense Linda Bartoshuk, della Yale University) ha permesso di classificare le persone in tre tipi fondamentali: i supergustatori, i gustatori normali e i nongustatori. I supergustatori (puoi provare a fare un semplice test cliccando qua) hanno più del doppio delle papille gustative dei non-gustatori. Hanno più gemme. E hanno papille più piccole e più ravvicinate. Saltano sulla sedia per una dose di peperoncino che non viene quasi percepita da un nongustatore. Sentono il dolce molto più dolce. E finiscono quasi sempre per mangiare meno dolci e meno grassi. Raramente hanno problemi di colesterolo. Al contrario, i non gustatori tendono a mangiare tutte le cose più dolci e grasse e, sembra, hanno anche una predisposizione all’alcolismo. Ma se il gusto vero è costituito solo da quattro sapori, allora che cos’è quello che in genere chiamiamo gusto? Per capire in che cosa consista la differenza basta pensare a quando abbiamo il raffreddore. Tutti i cibi perdono il sapore consueto: la carne assomiglia ai cavoli, la pesca alla pera. L’occlusione delle cavità nasali, infatti, impedisce la percezione dei sapori con un altro senso, l’olfatto». Per dimostrare che il gusto si sente anche con il naso, e che sono importanti anche la masticazione e la saliva, Deborah Roberts della Cornell University a New York ha costruito una bocca artificiale che simula la masticazione triturando e mescolando cibo e saliva artificiale (una soluzione a base di acqua, sali ed enzimi). In tal modo vengono rilasciati aromi che confluiscono nel gascromatografo, un apparecchio che li separa nelle singole componenti chimiche.
In bocca il vino bianco si scalda, e i vapori si infilano nel naso
Ogni sostanza viene poi raffreddata, inumidita e data da annusare a un individuo che ne definisce l’odore secondo una serie di specifiche descrizioni, come “fruttato”, “fumoso”, eccetera: il naso umano ha dimostrato infatti di essere più sensibile del miglior apparecchio analitico nel cogliere la sostanza chimica che dà un particolare aroma. Il sapore del caffè che resta in bocca, e che il cervello registra come una sensazione unica, è per esempio un puzzle fatto di molte tessere. Ci sono il dolce dello zucchero e l’amaro del caffè percepiti dalle papille gustative, ma tutto il resto è lavoro del naso. La maggior parte delle informazioni sensoriali che caratterizzano il cibo non raggiunge però la coscienza dall’esterno della bocca, ma dall’interno, anche quando è coinvolto il naso. Il vino bianco, per esempio, servito freddo a 10 gradi, ha la maggiore evaporazione in bocca, a 37 gradi. Il gusto del vino sale per via retronasale, il vapore arriva in fondo alla gola e risale nel naso. Se è sgradevole, come nel caso delle medicine, si chiude istintivamente la comunicazione e si deglutisce a naso chiuso. Ma se è piacevole, il gusto sale per questo camino interno: gli inglesi lo chiamano flavour, cioè aroma che si percepisce in bocca, e in italiano è chiamato gusto o retrogusto, ma dovrebbe chiamarsi retrolfatto. Oltre a lingua e naso, ha un ruolo anche il palato, che mette in evidenza le asperità, la cremosità, la ruvidezza dei cibi. Per esempio, i grumi di una crema sono percepiti quando la lingua la schiaccia contro il palato. E la saliva crea un effetto astringente quando le sue proteine interagiscono con i tannini dei frutti acerbi. I denti rivelano la durezza e la consistenza di una sostanza in base allo sforzo necessario per schiacciarla. Collaborano a formare il gusto, infine, i recettori del dolore, sui quali agiscono per esempio le spezie: il piccante del peperoncino è dovuto alla capsaicina, che irrita le mucose. Mentre il pizzicore delle bevande frizzanti, champagne compreso, è dovuto all’effetto irritante dell’anidride carbonica sulle terminazioni nervose. Nel gusto ha un ruolo anche la vista, tanto che la valutazione del vino si fa al buio, o con bicchieri neri. E forse l’occhio fa la sua parte anche quando guardiamo un piatto di cavallette fritte, specialità africana, o di occhi di pecora, leccornia di alcuni Paesi arabi. Molti occidentali troverebbero queste pietanze disgustose semplicemente per il loro aspetto, dimenticando che noi ci cibiamo tranquillamente di uova di gallina e di lingua di bovino. Insomma il gusto è un senso generoso: invita ai piaceri della tavola tutto l’organismo.
monica
Potrei conoscere la bibliografia dello studio di Jean Didier Vincent? Grazie