Psiche e Soma

Ricette per una vita migliore!

Month: febbraio 2012 (Page 1 of 2)

Come mangiavano i nostri antenati? Diamo i voti alle loro diete.

I più saggi in fatto di cibo? I benedettini. I più sconsiderati? I cortigiani della regina Vittoria.
Ecco i motivi. Alla fine hanno vinto i monaci benedettini, tallonati dagli antichi greci e dai soldati di Garibaldi. Distanziati, ma non troppo, i samurai giapponesi. In mezzo, romani, egizi e milanesi del dopoguerra. Irrimediabilmente ultimi, il re Sole e la regina Vittoria. Nella gara per il titolo di alimentazione più sana, che abbiamo organizzato tra nove epoche storiche per una volta hanno vinto i più poveri sui ricchi. Ma non c’è da stupirsi. Sulle tavole dei re di Francia e di Inghilterra i cibi erano troppi, e soprattutto troppi i grassi e gli alcolici, per una vita sedentaria.
Il nutrimento quotidiano dovrebbe essere fornito dai cereali, cioè pane, pasta, riso, orzo, come secondo piatto si può scegliere tra carne, pesce, uova, formaggi, ma mai in quantità superiore alla misura della propria mano, con le dita chiuse. In più, tre porzioni di verdura della misura del proprio pugno e due o tre frutti al giorno.Giusto quello che mangiavano i monaci nel XII secolo.

IL GRECO – V sec. a.C.
Al tempo di Pericle: orzo, aglio e gallette
A causa del clima e della scarsa fertilità del suolo i greci erano piuttosto morigerati. La base dell’alimentazione era costituita da orzo e grano. Le maza, ossia gallette di farina d’orzo, erano il cibo quotidiano. Il pane di frumento invece si mangiava solo nei giorni di festa. Come companatico, un alimento solido, chiamato opson, e cioè verdura, cipolle, olive, carne, pesce, frutta. Alto il consumo di formaggio e aglio. Il pesce era il piatto forte: soprattutto sardine e acciughe, ma anche frutti di mare, conchiglie e molluschi, seppie e calamari. In città le verdure erano rare, molti i legumi (soprattutto fave e lenticchie) che si consumavano in purè.
IL GIUDIZIO
Un pasto così sarebbe valido anche ora
Buon punto di equilibrio: al tempo di Pericle, la dieta era prevalentemente a base di cereali e fra questi l’orzo, uno dei cibi più utili per compensare l’elevato consumo di formaggio. L’alimentazione dei greci presentava anche altri vantaggi: grazie all’aglio e al pesce riusciva a mantenere fluida la circolazione. Fave e lenticchie completavano un menu sottoscrivibile anche oggi. Senza dimenticare, infine, l’altro pregio di questa dieta: le gallette richiedevano una masticazione accurata, un atto utilissimo a limitare le eccessive quantità di cibo.

IL LEGIONARIO ROMANO – I sec. d.C.
Lardo, acqua e aceto e 1 kg di grano

Il rancio del soldato era a base di lardo, formaggio e posca, ossia acqua mista ad aceto, supportato da gallette di grano. Spesso i soldati dovevano macinarsi da sé il grano (a ognuno spettavano 900 grammi al giorno). Il soldato di guarnigione aveva qualche privilegio in più: prodotti sotto sale, salumi, carne. A volte qualche prelibatezza come volatili, mammelle di scrofa, rognoni. La famiglia dei militari spesso inviava regali: datteri ripieni di noci, pinoli, pepe macinato e poi fritti nel miele. Oppure biscotti, fatti con farina, fritti in olio
IL GIUDIZIO
Senza vitamine il soldato dura meno
Per il soldato romano energia dei cereali e in quantità cospicua (sotto forma di cibi ben conservabili essendo prevalentemente secchi o a basso contenuto d’acqua). Lardo e salumi in modesta quantità venivano ben metabolizzati da una attività fisica costante. I dolci (con pochi grassi perché i grassi non si conservavano bene) riservati alle feste: scelta saggia. L’aceto mescolato all’acqua serviva, in parte, a disinfettarla. Le probabili e frequenti carenze vitaminiche da mancanza di frutta e verdura fresche giustificano la veloce “usura” di questi

L’EGIZIANO – II mill. a.C.
Pane e birra per il faraone

Gli alimenti principali della cucina egiziana erano pane e birra (che si otteneva dall’orzo). Gli egiziani allevavano poi bovini, pecore e capre e ne gustavano molto la carne arrostita. Apprezzate anche anatre, oche, pesci. I volatili venivano puliti, lasciati essiccare e conservati in salamoia. Quelli più grossi invece erano arrostiti allo spiedo. Si mangiava moltissima verdura: porri, fagioli, ravanelli, cetrioli, lattuga. Si producevano inoltre formaggio e vino. Al posto dello zucchero, il miele condiva dolcetti di farina di datteri e di carruba. A fine pasto, un bicchierino di shadeh, bevanda molto alcolica tratta dal melograno.
IL GIUDIZIO
Troppo alcol: occhio al fegato
Pane e birra hanno in comune il processo di fermentazione dei propri amidi (quelli del frumento e dell’orzo). Infatti la birra, oltre ad alcol, contiene ancora piccole quantità di zuccheri. Come tutti i potenti, i faraoni mangiavano molta carne, ma bilanciavano con abbondanti verdure e legumi. Un po’ troppo alcol per il fegato, anche se gli antiossidanti contenuti in vegetali, birra e vino potevano mitigarne le conseguenze.

IL SAMURAI – XV sec. d.C.
Carne, prugne salate

L’alimento principale era il riso oban, cioè cotto nell’acqua e pressato nella ciotola. Nel XV secolo si riteneva che la razione quotidiana di un uomo dovesse essere 900 grammi di riso sbucciato. Oltre al riso, si coltivava anche grano saraceno per ricavarne la soba (taglierini da mettere nella minestra). Quando possibile, il riso veniva accompagnato da molluschi secchi, alghe, melanzane, cetrioli, funghi. I guerrieri cacciavano molto: la carne veniva seccata e salata. Molto apprezzate le prugne in salamoia e seccate. Tra i condimenti, il miso, ricavato da germogli di soia e grano. Gli alimenti normalmente venivano bolliti: la cottura
IL GIUDIZIO
Cibo da sportivi
Struttura alimentare adatta a chi fa intensa attività fisica (oggi è copiata in molte palestre): carboidrati insaporiti da erbe più che da grassi, con proteine nobili tratte da carne secca, molluschi e funghi. I molti cibi cotti riducevano le infezioni alimentari, ma a prezzo della perdita di vitamine (il riso decorticato riduceva quelle del gruppo B). La selvaggina aveva pochi grassi, di qualità simile all’olio di oliva. Con poche verdure e frutta fresche, la vita durava

IL MONACO BENEDETTINO – XII sec. d.C.
Anche cinque uova in 24 ore

Il primo pasto comprendeva due piatti, uno di fave o piselli (bolliti e conditi con un po’ di lardo), e uno di cavolo o lattughe o insalate varie. A questo menu, tre volte la settimana si aggiungevano cinque uova fritte, e ogni tanto una porzione di formaggio cotto. Gli altri giorni, invece, una pietanza fatta di 250 grammi di formaggio molle e due uova. Ogni giorno, poi, a ciascun monaco veniva distribuita una razione di pane di 500 grammi e 30 centilitri di vino. Il pasto della sera comprendeva pane con frutta cruda di stagione (pere, mele, nespole, noci, ciliegie, fragole, fichi, prugne, castagne, uva).
IL GIUDIZIO
Più sensati di noi in fatto di colesterolo
La longevità dei monaci rispetto al resto della popolazione era leggendaria. La loro dieta dimostra quanto siano mal condotte alcune campagne che demonizzano il lardo e le uova: poco di tutto e molti legumi migliorano l’utilizzo di grassi e colesterolo. È un’alimentazione quasi vegetariana, con un altro pregio: un pasto serale molto frugale. Poco vino: bravi i benedettini, con buona pace del colesterolo delle uova! Non dimentichiamo poi

ALLA CORTE DEL RE SOLE – 1638/1715
Quasi un kg di carne al giorno

Lo scrittore Audiger dice che alla corte di Luigi XIV (1638-1715), perché nessuno si lagnasse, ci volevano 750 grammi di carne al giorno, inclusi brodi, sughi e concentrati. Poi descrive un menu tipico di corte. Il primo è un piatto di carne bollita, seguono salsicce, torte di piccione e pernice, pollo in gelatina o quaglie. Il secondo: arrosto, uccelli, orecchie di porco, testicoli di vari animali, uova, cardi, carciofi, gelatine e carni bianche. Per concludere, un piatto di frutta e composte. Vino a volontà che, secondo il galateo francese dell’epoca, va bevuto tutto d’un fiato.
IL GIUDIZIO
Un menù da aspiranti suicidi
Troppo di tutto, ma soprattutto troppa carne. Ciò spiega la frequenza di gotta e di obesità delle classi agiate del tempo. La frutta e la composta non riuscivano a bilanciare l’enorme quantità di proteine da smaltire. Il vino “a volontà” e da bere tutto di un fiato non aumentava certo né la digestione né la lucidità di pensiero. In genere la salute di questi soggetti non era brillante, anche per la scarsità di verdure e di legumi a fronte di un eccesso di grassi e colesterolo. L’uso della gelatina infine comportava frequenti rischi di tossinfezioni alimentari per il facile inquinamento batterico di questi preparati quando le temperature di conservazione non sono ben controllate. ●

LA REGINA VITTORIA – 1819/1901
Al minimo, 12 portate

Ipasti erano molto consistenti: si parla di 12/15 portate alla volta. Quello che descriviamo è il menu di un breakfast nuziale (che si può paragonare a un pasto medio di corte e al quale facevano seguito un pranzo e una cena ancora più abbondanti). Una minestra alla crema di riso. Un primo di costolette di agnello impanate e fritte, filetti di pollo al tartufo, animelle di vitello e cicoria, filetti di anatroccolo e piselli. Come piatti intermedi, insalata di astici, uova di piviere. Per secondo, polli arrosto al crescione, con contorno di piselli al burro. Dolci: gelatina con arance, meringhe.
IL GIUDIZIO
Schiavi dei clisteri
Troppa carne, e in genere troppi cibi esageratamente ricchi di grassi. La crema di riso e i piselli (antica tradizione inglese) non sono capaci di compensare l’eccesso di grasso e colesterolo di questi sistemi alimentari. Problemi circolatori in età giovane e tempi di digestione “biblici” si accompagnavano a fenomeni di stipsi tali per cui i clisteri erano all’ordine del giorno (o addirittura dovevano essere praticati più volte al giorno).

IL GARIBALDINO – 1859
Due pagnotte e tante fave

La base del pasto erano pagnotte di frumento, di solito due o tre al giorno (del peso medio di tre etti). Come companatico: cacio di pecora e fave oppure olive. Ogni tanto qualche capo di bestiame: in particolare pecore (che venivano bollite e nel cui brodo cuocevano vermicelli di pasta). Nel brodo di pecora spesso bollivano anche fave (abbondantissime) oppure fagioli, piselli, ceci. A volte nel rancio c’era carne di maiale (pancetta affumicata sotto sale). Qualche volta, maccheroni con pomodoro. Come frutta: fichi, arance, pesche. Mangiavano anche uova a frittata oppure a zabaione con vino e zucchero (riservato agli esploratori, per dar loro energia).
IL GIUDIZIO
Seguace della dieta mediterranea
È una dieta piuttosto varia e tendente al mediterraneo, con buona presenza di verdura e frutta (e anche abbastanza povera perché non beneficiava dei rifornimenti dell’esercito regolare). Buona base di pane e, in generale, piccole quantità di formaggio o carni. Le pecore erano le risorse “carnee” più probabili per chi era quasi alla macchia o comunque evitava la città. Lo zabaione mattutino per l’energia è una tradizione rimasta viva fino al dopoguerra e compensava la carenza di proteine nobili per le classi meno abbienti.

MILANO ANNI CINQUANTA
Riso in tutte le salse

La dieta naturalmente variava secondo le classi sociali. In particolare tra dieta della borghesia e del proletariato urbano c’era un vero e proprio abisso, soprattutto per quanto riguarda il consumo di carne (in una famiglia proletaria non compariva più di una/due volte la settimana). Piatti comuni, nel menu invernale, erano: riso in brodo, riso al burro, risotto con fagioli, minestra di verdure, pasta e fagioli, maccheroni al pomodoro, pollo lessato, cotoletta di maiale, polenta con carne di maiale, salsicce e verze, cotoletta di vitello impanata, cotechino, formaggi molli, patate lessate o fritte. La verdura fresca era scarsa e così il pesce (tranne aringhe e merluzzo, per il venerdì di magro). Il pane fresco in compenso non mancava mai sulla tavola dei milanesi. La frutta comprendeva
soprattutto mele e pere. Tra i dolci: castagna
IL GIUDIZIO
Meglio in estate che in inverno
La pasta come primo piatto era sostituita da risotto, minestre o minestroni. Insieme ai legumi (la carne dei poveri) c’era anche maiale, ma accompagnato sempre con verdure (verza) e patate. Il burro era il condimento principale, ma i poveri ne usavano poco e non rischiavano eccesso di grassi. Per loro, carenze vitaminiche d’inverno (niente agrumi) mentre d’estate la verdura fresca migliorava le cose. Poco pesce, dunque possibili problemi circolatori.

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Un attimo di relax #181

Foto, citazione e libro della settimana sono il mio modo per regalarvi un minuto di relax.

“Non innaffiatemi per favore…”

Se c’è rimedio, perché t’arrabbi? Se non c’è rimedio, perché t’arrabbi?” ~ Confucio

Libro della settimana:

Earthing - A Piedi Nudi - Libro

Tre curiosità sui colori. [Tutto sui colori. Parte 5/5]

Rosso come un fischio, sonoro come un limone
Gli italiani sinestetici dovrebbero essere circa duemila: 1.500 donne e 500 uomini. Lo afferma il neurologo inglese Richard Cytowic, il primo ad avere studiato questo singolare fenomeno in maniera sistematica. Di cosa si tratta? Letteralmente “sinestesia” significa fusione dei sensi. In pratica, i sinestetici percepiscono forme, suoni e colori in maniera diversa rispetto alle altre persone: alcuni vedono un colore associato a ciascun numero; altri descrivono un sapore come “appuntito” o “sferico”. Un caso famoso è quello del pittore Vasilij Kandinskij, che vedeva i suoni e sentiva i colori: intitolò addirittura una sua composizione “Il suono giallo”. Il fenomeno della sinestesia dimostra quanto il nostro concetto di colore sia legato all’elaborazione cerebrale, che nei sintestetici non avviene nella corteccia ma nelle zone più “profonde” del cervello. Lo psicologo inglese Baron-Cohen ha addirittura ipotizzato che la fusione dei sensi sia normale nei neonati, e che solo nel successivo sviluppo si perda la capacità di distinguere i “colori della musica”.

Un bagno di giallo, per sconfiggere la gastrite?
Con i colori si può anche guarire? La cromoterapia è il sistema più efficace per curare una delle malattie più gravi dei neonati, l’ittero nel sangue. Da oltre trenta anni, negli ospedali, i piccoli pazienti che nascono con un eccesso di bilirubina nel sangue (cioè la sostanza prodotta dalla disgregazione dei globuli rossi, che vengono sostituiti da quelli nuovi) vengono posti sotto lampade a luce blu: i raggi ultravioletti, combinandosi con questa sostanza, in parte la distruggono, in parte la trasformano in un composto biochimico che l’organismo del neonato riesce a eliminare più facilmente. Questo è l’unico esempio di cromoterapia che la medicina ufficiale applica sistematicamente. Tutti gli altri impieghi, non avendo risultati altrettanto significativi, sono visti con grande scetticismo. «Invece noi conosciamo il colore giusto per ogni patologia, da somministrare nella forma di luce colorata irradiata sulla parte ammalata, alimenti e abbigliamento», sostiene il cromoterapeuta Gianni Camattari, del centro di psicologia integrata di Milano. «Gli stress si curano per esempio somministrando del blu, i disturbi muscolari con il verde, i disturbi polmonari e gastro-intestinali con il giallo, le depressioni e le infiammazioni con il rosso». Già gli antichi facevano ricorso a questo metodo: i templi egizi di Karnak e Tebe erano dedicati infatti alla cura del colore, mentre gli antichi romani usavano impiastri rossi (di porpora) per cicatrizzare le ferite. «L’azione terapeutica del colore si basa su un principio fisico, e cioè l’impatto delle vibrazioni elettromagnetiche prodotte dalla luce di una certa lunghezza d’onda sulle nostre cellule. E’ chiaro tuttavia che i benefici di questa pratica sono molto blandi», ammette Camattari. E infatti non possono sostituire i trattamenti tradizionali. Tutt’al più, sostengono alcuni medici, non essendoci controindicazioni, la terapia dei colori si può usare, ma come appoggio a quella farmacologica.

Ne vediamo al massimo 200
Per tradizione i colori sono sette: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Questa suddivisione fu proposta da Isaac Newton nel 1672, probabilmente sotto l’influenza degli atteggiamenti mistici dell’epoca. Il sette era infatti considerato un numero di alto valore simbolico: sette erano i cieli (e il settimo coincideva con il Paradiso); sette erano le età dell’umanità secondo Sant’Agostino; sette erano i peccati capitali e le virtù teologali, e sette erano anche i sacramenti della Chiesa cattolica. In realtà i colori sono infiniti, poiché basta una minima variazione di lunghezza d’onda perché all’ occhio arrivi uno stimolo differente. Quindi lo “spettro” (cioè l’insieme di tutti i colori) contiene un numero illimitato di tonalità che sfumano l’una nell’altra. Ma quante ne può distinguere l’occhio umano? Indagini sperimentali hanno concluso che una persona con una vista normale arriva mediamente a distinguere 200 colori, ma soltanto se le sfumature simili sono accostate l’una all’altra, permettendo al cervello di notare il contrasto.

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…che più bianco non si può! [Tutto sui colori. Parte 4/5]

Dai detersivi “truccati” ai segreti delle bolle di sapone: tutti i perché dei colori più comuni.

Sono stati contati oltre dieci meccanismi di formazione del colore. Vediamo quali sono i principali, con alcuni esempi. Tutto dipende dal fatto che la luce viene assorbita, deviata e riemessa da atomi e molecole. Solo così si spiegano alcune stranezze, per esempio come mai l’aria è trasparente, mentre il cielo è azzurro.

Esiste il “bianco più bianco del bianco”?
In alcuni rari casi l’energia assorbita da un corpo viene riemessa trasformata: questo fenomeno si chiama fluorescenza, ed è sfruttato, per esempio, negli sbiancanti per i detersivi. Gli sbiancanti assorbono la luce ultravioletta del sole e la riemettono con un’energia inferiore, che cade nella zona del blu. E’ così che si crea l’impressione di un bucato “più bianco del bianco”: la luce “emessa” da lenzuola e tovaglie è effettivamente più intensa di quella che le colpisce, e in più possiede una componente blu che conferisce al bianco una sfumatura “elettrica”.

Perché il cielo è azzurro?
In teoria l’aria è trasparente, perché è composta da innumerevoli molecole di ossigeno, azoto, vapor d’acqua, anidride carbonica, che non sono in grado di assorbire la luce. La presenza di queste molecole, però, dà luogo a un fenomeno che si chiama “diffusione”, cioè una riflessione in tutte le direzioni della luce stessa: è da questa che nasce la luminosità del cielo diurno. La diffusione, però, non è “democratica”: preferisce le onde più corte, cioè quelle azzurre, e quindi il cielo è molto più ricco di azzurro diffuso che non di altri colori. Lo stesso fenomeno si verifica per tutte le sospensioni di particelle microscopiche, come il banale fumo di sigaretta.

Perché il sole è giallo?
La responsabilità è ancora della diffusione: la luce del sole risulta infatti impoverita di azzurro, perché questo colore viene diffuso più degli altri e “trasferito” nella volta del cielo. Il fenomeno si accentua quando i raggi solari seguono una traiettoria obliqua, che allunga il loro tragitto nell’atmosfera. Ecco perché al tramonto il sole si arrossa, mentre il cielo appare di un azzurro più intenso.

Perché la neve è bianca?
L’acqua non assorbe la luce, se non molto debolmente. Nella neve, però, l’acqua si trova in forma di granuli, che provvedono a riflettere o a deviare (in un fenomeno chiamato rifrazione) la luce che li colpisce, e a diffonderla in tutte le direzioni. Il risultato è che tutte le frequenze ritornano all’occhio e la neve appare bianca anziché trasparente. Lo stesso si verifica nelle polveri cristalline che non assorbono luce, come per esempio lo zucchero, il sale, l’aspirina Perché i metalli hanno colori più lucenti? Nei metalli vagano liberi moltissimi elettroni, e ciò li rende ottimi conduttori elettrici. Gli elettroni liberi, però, si oppongono alla propagazione della luce, ed è per questo che l’onda luminosa in arrivo viene riflessa quasi senza perdere energia. I metalli bianchi come l’argento, quindi, sono specchi quasi perfetti (purché siano levigati, altrimenti la luce rimbalza in tutte le direzioni, dando un aspetto opaco alla superficie). Nei metalli colorati alcune frequenze luminose vengono invece assorbite, ma l’intensità della luce rie-messa è comunque maggiore che nelle altre sostanze opache.

Perché sott’acqua i colori sono alterati?
L’acqua riflette un po’ della luce che la colpisce (è questo che ci permette di scorgere la superficie del mare) e assume quindi un colore simile a quello del cielo. Le sue molecole, però, hanno la capacità di assorbire la radiazione infrarossa, ovvero il calore, e questa capacità si estende un po’ anche al colore rosso. Bisogna però scendere almeno fino a trenta metri perché si perda ogni tono di rosso, e tutto assuma un aspetto verdastro.

Perché le bolle di sapone sono iridescenti?
Dipende da un fenomeno chiamato interferenza, che si verifica quando due onde si sommano: nelle bolle di sapone (come anche in uno strato di olio sull’acqua) una parte della luce incidente viene riflessa dalla superficie esterna della bolla, mentre una parte viene riflessa dalla superficie interna dopo una piccola deviazione. La somma delle due componenti dà origine a onde di lunghezza (e quindi di colore) variabile a seconda dell’angolo di osservazione. Quando la pellicola diventa troppo sottile il fenomeno scompare.

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Un attimo di relax #180

Foto, citazione e libro della settimana sono il mio modo per regalarvi un minuto di relax.

“Il mio amico speciale”

Pochissimi sanno essere liberi e pochissimi sanno cosa vuol dire esserlo.” ~ Marguerite Yourcenar

Libro della settimana:

Pensare come le Montagne

Il colore nasce nel cervello. [Tutto sui colori. Parte 3/5]

Il verde dello smeraldo e il rosso lucente del rubino? Sono semplicemente frutto di impercettibili impurità. Le due gemme, infatti, hanno composizione chimica differente, ma se fossero pure sarebbero entrambe trasparenti. E’ dunque solo l’intrusione di qualche atomo di cromo (circa uno ogni centomila) che genera in essi il colore: gli atomi estranei, infatti, assorbono tutti i colori della luce meno uno, quello che noi vediamo. Le impurità, però, agiscono in modo diverso a seconda del campo elettrico interno della gemma. Ecco perché in un caso si genera il verde e nell’altro caso il rosso.

La luce prosciugata
Nello stesso modo, cioè con processi che coinvolgono una parte minima degli atomi, nasce la maggior parte dei colori che ci circondano. Gli oggetti opachi, per esempio, hanno una sottilissima pellicola superficiale che si comporta esattamente come un filtro: trattiene la maggior parte della luce e riemette soltanto una “porzione” del raggio. Questa porzione impoverita viene captata dai nostri occhi, trasmessa al cervello e infine interpretata come colore. La luce, infatti, è costituita da una miscela di radiazioni di varia frequenza, come si può notare scomponendo un raggio luminoso attraverso un prisma (il primo a farlo fu Isaac Newton). Alcune di queste frequenze corrispondono ai colori; altre, come i raggi ultravioletti o gli infrarossi, sono invece invisibili ai nostri occhi. Più in generale, quando la luce colpisce un oggetto possono verificarsi quattro situazioni: 1) Tutta la luce viene assorbita: la sostanza appare nera. 2) Tutta la luce viene riflessa: la sostanza si comporta come uno specchio. 3) Tutta la luce viene trasmessa: la sostanza è trasparente. 4) Una parte della luce viene riflessa, una parte viene assorbita (contribuendo a scaldare il corpo), e una parte viene riemessa con la stessa lunghezza d’onda: è il colore dell’oggetto.

Bastoncelli e coni
La sensazione di colore, d’altra parte, dipende anche dagli organi umani legati alla visione, ovvero la retina e la corteccia cerebrale. Nella retina ci sono due varietà di cellule: i bastoncelli e i coni. I primi sono sensibilissimi alla luce, ma non ai colori, e quindi sono particolarmente utili nella visione notturna. I secondi si suddividono in tre famiglie che contengono tre diverse proteine sensibili rispettivamente al rosso, al verde e al blu. Quando queste proteine vengono colpite da luce della giusta lunghezza d’onda, “si eccitano” e trasmettono un segnale elettrico al cervello. Ben il 30 per cento della corteccia cerebrale lavora per decodificare questi segnali visivi (contro il 3 per cento destinato ai segnali uditivi), anche se non è ancora chiaro come si svolga il processo, e alcuni fenomeni risultano inspiegabili.
C’è un esperimento facilissimo da fare a casa. Basta illuminare uno schermo con due fari, uno rosso e uno bianco, e mettere una mano davanti alla luce rossa: l’ombra dovrebbe essere bianca su sfondo rosa, perché tutta la luce bianca continua ad arrivare sullo schermo. Invece si vede un’ombra azzurra, perché l’occhio si fa influenzare dal colore adiacente. E’ dunque anche una questione di abitudine, di esperienza: il cervello “sa” che le ombre sono scure, e non accetta di vederle bianche. L’esperienza ha anche il merito di farci vedere i colori sempre uguali, sia alla luce di una candela (1500 gradi: luce con alto contenuto di rosso), sia sotto una lampadina (2200 gradi: luce più giallastra), sia all’aperto (il sole, circa 6000 gradi alla superficie, emette luce con abbondanza di giallo-verde). In ciascun caso gli oggetti illuminati cambiano colore, ma l’occhio compensa la variazione facendo una specie di istantaneo confronto di tutto quello che vede, e ricostruendo così i colori abituali. Questo non avviene con la luce al neon: se si compra una cravatta, si esce dal negozio per controllare qual è il colore autentico, la spiegazione è che la luce al neon contiene sì alcune frequenze che sommate danno il bianco, ma non contiene l’intero spettro dei colori: l’occhio, così, si trova spiazzato e non riesce più a fare le necessarie correzioni.

Scimmie daltoniche
I nostri tre tipi di coni sono il minimo necessario per una visione completa dei colori: ogni sfumatura può essere infatti generata sommando dosi opportune di tre colori “primari” (cioè tali che la loro somma in parti uguali dia il bianco). L’occhio umano è quindi attrezzato per distinguere tutte le tinte della natura, ma non è sempre stato così. Qualche anno fa, infatti, si è scoperto che i nostri più scimmieschi antenati avevano una visione dei colori piuttosto limitata: le due proteine sensibili al rosso e al verde, infatti, sono prodotte grazie a due geni praticamente identici (al 98 per cento), che secondo i genetisti devono essersi differenziati in tempi relativamente recenti… circa 40 milioni di anni fa. Prima di allora, probabilmente, le protoscimmie non distinguevano con chiarezza il colore del sangue da quello del fogliame.

Energie proibite
Per quanto riguarda i meccanismi di formazione del colore, resta da spiegare in che cosa consista l’assorbimento (nonché la riemissione) delle onde luminose da parte della materia. Tutto dipende da alcuni divieti in vigore nel mondo microscopico: ogni atomo ha una serie di livelli energetici permessi, e può quindi aumentare la sua energia soltanto a “balzi”, come se salisse una scala. Fermarsi a metà di un gradino è proibito dalla natura, proprio come è proibito all’acqua di scorrere verso l’alto. Di conseguenza, dal momento che ogni colore corrisponde a un’energia ben precisa, ogni sostanza può assorbire solo alcuni colori (a parte gli oggetti neri, che assorbono tutto), mentre i rimanenti colori vengono espulsi dopo una serie di “rimbalzi” e sono percepiti dai nostri occhi come miscela di colori ormai ben diversa dal bianco di partenza. L’energia catturata dagli atomi del materiale, invece, si trasforma in calore.

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Sei agitato? Mettiti in blu. [Tutto sui colori. Parte 2/5]

Il rosso eccita, il blu calma, il giallo rende allegri, il verde fa sentire più sereni. Molti studi psicologici, negli ultimi anni, hanno avuto come oggetto l’effetto dei vari colori sulla nostra psiche. «Osservare un colore provoca in noi anzitutto risposte di tipo fisiologico », spiega lo psicoanalista Claudio Widmann, collaboratore di Max Lüscher, lo psicologo svizzero più attivo in questo tipo di studi. «Se un soggetto viene sottoposto a una luce rossa, la sua pressione sanguigna, il ritmo cardiaco e il ritmo respiratorio subiscono un’ accelerazione. Diminuiscono, al contrario, se il soggetto viene sottoposto a una luce blu. A queste reazioni si associa poi un effetto psichico: per il rosso l’eccitazione, per il blu l’azione sedativa». Il primo a trovare una prova scientifica dell’influenza del colore sul nostro organismo fu Albert Szent Giörgyi, premio Nobel per la medicina nel 1937: in primo luogo scoprì che ormoni ed enzimi “possiedono” colori propri. Poi scoprì anche che questi ormoni venivano stimolati a svolgere le loro funzioni se sollecitati con luce colorata. «Questo perché il colore non è altro che l’emissione di luce e quindi di un’onda elettromagnetica. Dentro alle nostre cellule noi abbiamo dei recettori in grado di captare queste onde», dice l’immunologo e allergologo Attilio Speciani. «Oggi sappiamo, per esempio, che la melatonina, un ormone secreto dalla ghiandola epifisaria e regolatore delle funzioni immunitarie, agisce soltanto dietro stimolazione luminosa». I colori dunque possono agire sia come regolatori biologici sia come stimolatori psicologici.
L’ industria e la pubblicità sfruttano già da tempo questi principi. I fast food, per esempio, sono sempre di colore rosso e giallo, perché devono attirare l’attenzione e creare uno stimolo alla fame. Per lo stesso motivo gli aperitivi sono sempre di colore rosso: quando negli anni Settanta si tentò di introdurre bevande di colore blu, fu un fiasco clamoroso, perché il blu non ha alcun effetto stimolante.
Queste valenze psicologiche attribuite ai colori sono radicate anche nel linguaggio: in tedesco, per esempio, prendere una sbronza si dice “andare in blu”, per sottolinearne l’effetto depressivo. Per quanto riguarda il giallo, invece, è il colore del sole e della luce e quindi, secondo gli psicologi, evoca liberazione e sollievo dalle tenebre. Forse non è un caso se è anche il colore favorito, nei test, da gran parte delle donne in avanzato stato di gravidanza. Tempo fa, la compagnia aerea Swissair chiese allo stesso Max Lüscher di scegliere un colore che rendesse meno claustrofobici gli interni degli aerei e lui consigliò proprio il giallo. Pare che, di conseguenza, i passeggeri di Swissair siano aumentati del 20 per cento. Un altro esperimento singolare è stato tentato in alcune carceri degli Stati Uniti, dove è stato prescelto, per la divisa dei reclusi, il rosa: sembra che contribuisca a smorzare la tendenza alla litigiosità.
L’effetto psicologico dei vari colori è conosciuto da tempo anche nel settore architettonico. Il blu viene consigliato, negli interni, per arredare la camera da letto, il giallo e il rosso per la cucina e la stanza dei bambini, il verde per pavimenti e moquette (infonde serenità e senso di pulizia). Tuttavia nella scelta degli arredi alla fine prevalgono la moda e la tendenza culturale dei singoli Paesi. Negli anni Ottanta, con il boom dello stile postmoderno, in Italia si usavano soltanto colori pastello. Oggi stiamo assistendo all’impiego di toni più forti. Stanno arrivando anche i primi televisori e frigoriferi colorati. E’ una novità: l’Italia, infatti, a differenza di Stati Uniti e Francia, è un Paese molto refrattario ai colori accesi. Il timore, da noi, pare sia quello di mandare messaggi sbagliati e cioè di trasmettere, anziché vivacità, chiassosità. L’unico momento della nostra storia in cui il colore è entrato con prepotenza nelle case sono stati gli anni Sessanta: si facevano mobili, divani, tendaggi in arancione. Non a caso, sostengono gli psicologi: erano gli anni del boom economico e l’arancio rappresenta la voracità.
Come nell’arredo delle case, anche negli uffici le relazioni tra colore e psiche vengono tenute in scarsa considerazione. Negli standard tecnici per gli ambienti di lavoro non si parla mai di colori: l’unica indicazione è che pareti e oggetti debbano essere chiari e opachi, mai bianchi e lucidi, perché rifletterebbero la luce rendendo difficoltosa la lettura e provocando lacrimazione e annebbiamento della vista.

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Di che colore sei? [Tutto sui colori. Parte 1/5]

Siamo negli anni del blu. Negli ultimi cinquanta anni sondaggi e ricerche di mercato confermano continuamente il dato: il blu è il colore preferito da oltre il 50 per cento di europei, canadesi, americani e australiani. Seguono il verde (21 per cento), il bianco (10) e il rosso (9). Ultimo, in tutti i Paesi, il marrone. Che cosa c’è dietro a questa scelta? Secondo gli storici è tipico di ogni epoca avere un colore dominante: il bianco e il rosso lo sono stati per i romani, il giallo e l’oro per il Medioevo, il verde e il porpora per il Rinascimento, il nero per il Seicento calvinista e luterano, il bianco abbagliante per il Neoclassicismo ottocentesco. Il blu, infine, per l’età contemporanea. Il caso non c’entra: ogni colore ha precisi significati, che l’uomo gli ha attribuito fin dalla preistoria e che, in linea di massima, tali sono rimasti nel corso del tempo. Secondo questa spiegazione, il prevalere di un certo colore nella società, dunque, significherebbe anche il predominio dei valori che esso porta con sé.

Nella preistoria i colori erano considerati una forza sottile, un anello di congiunzione tra cielo e terra, gli antichi ritenevano addirittura che la connessione tra gli uomini e gli dei si palesasse concretamente nell’arcobaleno, incarnato nel mito greco della dea Iris ed esaltato anche nella Genesi biblica come suggello del patto di alleanza tra Dio e gli uomini, alla fine del diluvio universale. Secondo questa concezione, i colori dell’arcobaleno si sostanziavano nella natura e, con maggior vigore, nelle pietre preziose, che proprio per questo assumevano poteri magici. Pensiamo per esempio alle sepolture preistoriche nelle quali il defunto veniva cosparso con ocra rossa: il rosso si sostituiva al sangue per richiamare le forze vitali che avevano abbandonato il morto, e per proteggerlo nel suo cammino nell’aldilà. Per lo stesso motivo, cioè per rendersi amici gli dei attraverso pratiche magiche, i babilonesi costruivano i loro templi, le ziqqurat, dipingendo ogni piano (erano sei o sette) in un colore diverso. Anche gli egizi attribuivano potere al colore, tanto che per i loro geroglifici utilizzavano l’inchiostro nero con valore positivo, quello rosso con valore negativo. Da allora i colori, proprio perché legati all’intima essenza dell’uomo (gli stessi egizi usavano la medesima parola per dire “colore” e per dire “essere”), hanno assunto un significato simbolico universale, valido in ogni cultura e in ogni epoca. Così oggi il nero significa ovunque morte (oppure il suo contrario, cioè la rigenerazione); il bianco è la luce divina e la purezza; il giallo, prezioso perché assimilato all’oro, è la sacralità; il rosso come valenza positiva è sessualità e vitalità, come valenza negativa il furore; il verde, assimilato al manto vegetale, la fertilità. In tutti i popoli i colori simboleggiano questi valori. Quello che cambia, semmai, è l’atteggiamento che ogni cultura assume nei confronti dello stesso colore: per noi occidentali il nero è il colore funerario, per gli orientali il colore funerario è il bianco. Questo perché noi della morte cogliamo il lato distruttivo, gli orientali invece quello di rinnovamento, di rinascita partendo dal nulla. Un altro esempio: le spose, in Cina, si vestono di rosso. Da noi, in bianco. In Oriente infatti, nel giorno delle nozze, si vuole dare risalto al ruolo sessuale della sposa, da noi invece si vuole sottolinearne la purezza.

E il blu? Il blu, almeno in Occidente, si è imposto molto tardi: soltanto nel Medioevo, quando divenne simbolo della purezza (Giotto fu il primo a dipingere i cieli di azzurro e non più d’oro) e della Madonna. Prima, il blu si confondeva con il nero (Omero utilizzava indifferentemente i due colori) oppure simboleggiava l’eternità, perché si identificava con il cielo, che per tutti è la sede divina. Oggi il blu, in Occidente, evoca soprattutto il colore delle divise, delle uniformi e quindi porta con sé un contenuto di autorità.

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Un attimo di relax #179

Foto, citazione e libro della settimana sono il mio modo per regalarvi un minuto di relax.

“Yoda, io sono”

Se vuoi che la gente pensi bene di te, non parlare bene di te stesso.” ~ Blaise Pascal

Libro della settimana:

Scopri Te Stesso con la Neuro Scienza - Libro

Guida per conoscere il senso del gusto.

Ma è proprio tutto nella lingua? No, i sapori si colgono anche in altri modi. Insospettabili.

È il senso che si sviluppa più velocemente e ci consente le prime esplorazioni del mondo: non a caso i bambini piccoli prima ancora di guardare, tastare o annusare un oggetto lo mettono in bocca. L’evoluzione d’altronde ci ha fornito il gusto proprio per permetterci di distinguere fin dall’inizio le cose nutrienti (che sono in genere dolci) da quelle velenose (spesso amare). È insomma un senso studiato per la difesa, dal funzionamento semplice ma efficace. E, tutto sommato, poco raffinato: a differenza di quanto generalmente si pensa, il gusto non è infatti il senso dei sapori. Consente di sentire solo quattro sfumature fondamentali (dolce, amaro, aspro e salato). Il resto delle sensazioni che nel linguaggio comune attribuiamo a questo senso dipende invece dall’olfatto, dal tatto, perfino dalla vista. Forse per queste ragioni era finora anche il senso meno studiato dalla scienza. Un grave errore. Oggi gli scienziati stanno scoprendo che è molto più importante di quanto si pensasse, che varia da persona a persona, che esistono addirittura tre tipi di “gustatori” diversi e che appartenere all’uno o all’altro tipo può cambiare la vita: per esempio rendere alcolizzati, obesi, o magri e sani. A differenza della scienza, la natura ha sempre dato molta importanza al gusto. Dai batteri all’uomo, tutti hanno un tipo di gusto per riconoscere gli alimenti dalle sostanze immangiabili: questione di sopravvivenza. Anche i batteri apprezzano il dolce e sospettano dell’amaro. «Perché il dolce in natura è sinonimo di energia: gli zuccheri vengono bruciati molto fa-cilmente, e fanno bene a tutti gli organismi», spiega Paolo Pelosi, docente di analisi dei prodotti alimentari all’università di Pisa. «Mentre l’amaro forse è sgradevole perché molte sostanze naturali amare, come gli alcaloidi, sono anche tossiche».

Un cibo sembra più buono se il corpo ne ha bisogno
Questo non significa che il gusto sia uguale in tutti gli esseri viventi: gli insetti hanno cellule (sulle antenne) che reagiscono al contatto con l’acqua distillata, come se questa, priva di sapore per l’uomo, per loro lo avesse. Con il gusto la natura ha creato anche un meccanismo automatico per soddisfare i bisogni del corpo. «Una persona con carenza di sodio », spiega Jean Didier Vincent, direttore dell’unità di neurobiologia dell’Istituto francese della sanità e della ricerca medica, «sentirà il bisogno e consumerà con avidità un cibo in salamoia, giudicato ripugnante da un individuo normale. Allo stesso modo chi manca di una vitamina o di un particolare amminoacido, avrà voglia di gustare sapori di alimenti che li contengono ». Non è un caso, insomma, se il gusto è anche il primo senso sviluppato dai neonati (che nascono invece praticamente ciechi). Jacob Steiner, neurologo statunitense, ha registrato con una cinepresa le reazioni di bebé nati da quattro ore all’applicazione sulla lingua di soluzioni zuccherine, acide o amare. Al dolce tutti, senza eccezioni, facevano seguire una mimica di soddisfazione, sorriso e movimenti di suzione. All’amaro arricciavano il naso e sbattevano gli occhi. All’acido tiravano fuori la lingua con espressione di disgusto.

In che cosa consiste il gusto?
In realtà, anche se le sensazioni gustative sono pressoché infinite, si ritiene che bastino pochi gusti primari per descrivere anche i sapori più complessi. Gli attuali modelli propongono quattro gusti-base: dolce, salato, acido e amaro. Non che tutti siano d’accordo su questa semplificazione. I giapponesi, per esempio, sostengono che ci sia un quinto gusto, che chiamano “umami” e che corrisponderebbe al “sapore di brodo” o, meglio, al glutammato. Tutti concordano però su una definizione: il gusto, insieme all’olfatto, è una percezione della chimica del mondo. La differenza principale tra i due sensi è che l’olfatto percepisce le sostanze volatili, mentre il gusto quelle solubili nell’acqua. O, meglio, nella saliva.

Sette europei su dieci non avvertono un certo tipo di amaro
I sensori della chimica del gusto sono i “corpuscoli gustativi”.  Attorno alle papille, le piccole protuberanze della lingua, sono presenti dei solchi, come calici di fiore, adatti a trattenere la saliva. Sulle pareti di questi calici sporgono le gemme gustative, sensori simili a ciglia, disposte a ciuffi: su ognuna di esse si trova un corpuscolo gustativo, cioè un recettore del sapore. La saliva riempie i solchi, portando le molecole che vi sono disciolte a contatto con i corpuscoli. Le componenti chimiche del cibo si legano così ai corpuscoli: alcuni sono specializzati a cogliere il dolce, altri l’aspro, altri ancora il salato o l’amaro. Lo stimolo chimico (molto labile: basta un bicchiere d’acqua per spazzarlo via e cancellare la sensazione) viene convertito da questi corpuscoli in energia elettrica, un segnale adatto cioè a viaggiare sui nervi e raggiungere il cervello. Poi inizia un passaparola piuttosto complesso: ogni corpuscolo gustativo (e nella lingua umana ce ne sono circa 2 mila) è innervato da una cinquantina di fibre nervose, ognuna delle quali riceve informazioni da almeno 3-5 gemme (sulla lingua ce ne sono 9 contiene le informazioni sensoriali viaggia lungo tre nervi, il glosso faringeo, il trigemino e il vago, fino al bulbo, alla base del cervello (dove si trova il centro della salivazione: per attivarlo basta anche una sola parola, è il caso della classica acquolina in bocca). Da qui l’informazione prosegue verso il talamo e la corteccia “somatosensitiva”: basta una lesione in quest’area cerebrale per perdere parzialmente o completamente il senso del gusto. Il gusto non è però uguale per tutti. Anzi: non ci sono due lingue uguali, proprio come accade per le impronte digitali. Le gemme gustative sono diverse per numero e per sensibilità da individuo a individuo. Ciascuno, insomma, ha una sua soglia di percezione, non migliorabile. Si è per esempio scoperto che un composto chimico, il feniltiocarbamide (detto ptc), risulta amaro per sette indoeuropei su dieci e insapore per gli altri tre.

Con il raffreddore, la pesca somiglia alla pera, la carne ai cavoli
Questa incapacità di percepire il sapore del ptc è ereditaria e si manifesta quando viene trasmessa da entrambi i genitori. Uno studio più recente (condotto dalla statunitense Linda Bartoshuk, della Yale University) ha permesso di classificare le persone in tre tipi fondamentali: i supergustatori, i gustatori normali e i nongustatori. I supergustatori (puoi provare a fare un semplice test cliccando qua) hanno più del doppio delle papille gustative dei non-gustatori. Hanno più gemme. E hanno papille più piccole e più ravvicinate. Saltano sulla sedia per una dose di peperoncino che non viene quasi percepita da un nongustatore. Sentono il dolce molto più dolce. E finiscono quasi sempre per mangiare meno dolci e meno grassi. Raramente hanno problemi di colesterolo. Al contrario, i non gustatori tendono a mangiare tutte le cose più dolci e grasse e, sembra, hanno anche una predisposizione all’alcolismo. Ma se il gusto vero è costituito solo da quattro sapori, allora che cos’è quello che in genere chiamiamo gusto? Per capire in che cosa consista la differenza basta pensare a quando abbiamo il raffreddore. Tutti i cibi perdono il sapore consueto: la carne assomiglia ai cavoli, la pesca alla pera. L’occlusione delle cavità nasali, infatti, impedisce la percezione dei sapori con un altro senso, l’olfatto». Per dimostrare che il gusto si sente anche con il naso, e che sono importanti anche la masticazione e la saliva, Deborah Roberts della Cornell University a New York ha costruito una bocca artificiale che simula la masticazione triturando e mescolando cibo e saliva artificiale (una soluzione a base di acqua, sali ed enzimi). In tal modo vengono rilasciati aromi che confluiscono nel gascromatografo, un apparecchio che li separa nelle singole componenti chimiche.

In bocca il vino bianco si scalda, e i vapori si infilano nel naso
Ogni sostanza viene poi raffreddata, inumidita e data da annusare a un individuo che ne definisce l’odore secondo una serie di specifiche descrizioni, come “fruttato”, “fumoso”, eccetera: il naso umano ha dimostrato infatti di essere più sensibile del miglior apparecchio analitico nel cogliere la sostanza chimica che dà un particolare aroma. Il sapore del caffè che resta in bocca, e che il cervello registra come una sensazione unica, è per esempio un puzzle fatto di molte tessere. Ci sono il dolce dello zucchero e l’amaro del caffè percepiti dalle papille gustative, ma tutto il resto è lavoro del naso. La maggior parte delle informazioni sensoriali che caratterizzano il cibo non raggiunge però la coscienza dall’esterno della bocca, ma dall’interno, anche quando è coinvolto il naso. Il vino bianco, per esempio, servito freddo a 10 gradi, ha la maggiore evaporazione in bocca, a 37 gradi. Il gusto del vino sale per via retronasale, il vapore arriva in fondo alla gola e risale nel naso. Se è sgradevole, come nel caso delle medicine, si chiude istintivamente la comunicazione e si deglutisce a naso chiuso. Ma se è piacevole, il gusto sale per questo camino interno: gli inglesi lo chiamano flavour, cioè aroma che si percepisce in bocca, e in italiano è chiamato gusto o retrogusto, ma dovrebbe chiamarsi retrolfatto. Oltre a lingua e naso, ha un ruolo anche il palato, che mette in evidenza le asperità, la cremosità, la ruvidezza dei cibi. Per esempio, i grumi di una crema sono percepiti quando la lingua la schiaccia contro il palato. E la saliva crea un effetto astringente quando le sue proteine interagiscono con i tannini dei frutti acerbi. I denti rivelano la durezza e la consistenza di una sostanza in base allo sforzo necessario per schiacciarla. Collaborano a formare il gusto, infine, i recettori del dolore, sui quali agiscono per esempio le spezie: il piccante del peperoncino è dovuto alla capsaicina, che irrita le mucose. Mentre il pizzicore delle bevande frizzanti, champagne compreso, è dovuto all’effetto irritante dell’anidride carbonica sulle terminazioni nervose. Nel gusto ha un ruolo anche la vista, tanto che la valutazione del vino si fa al buio, o con bicchieri neri. E forse l’occhio fa la sua parte anche quando guardiamo un piatto di cavallette fritte, specialità africana, o di occhi di pecora, leccornia di alcuni Paesi arabi. Molti occidentali troverebbero queste pietanze disgustose semplicemente per il loro aspetto, dimenticando che noi ci cibiamo tranquillamente di uova di gallina e di lingua di bovino. Insomma il gusto è un senso generoso: invita ai piaceri della tavola tutto l’organismo.

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