Psiche e Soma

Ricette per una vita migliore!

Month: novembre 2011

Geni si nasce o si diventa?

Trentasei quiz in quaranta minuti. Per mettersi in tasca la prestigiosa tessera del Mensa, il club che raccoglie i cervelloni di tutto il mondo, bisogna superare la prova con un punteggio minimo di 148. Tenete presente che l’intelligenza media nel mondo è fissata a quota 100: chi prende 148 entra in un gruppo molto ristretto, che comprende appena il 2 per cento della popolazione umana, se poi prende 170, entra nell’1 per cento, e così via. C’è perfino chi, e sono pochissimi, arriva a superare quota 200. In Italia i membri del Mensa (che ha sede centrale a Montecatini) sono appena trecento, ma in tutto il mondo sono più di 100 mila.

Beethoven? Respinto
«Ma non bisogna prendersela, in fondo il test misura solo un aspetto parziale dell’intelligenza e cioè le attitudini logico- spaziali. Quelle, per intenderci, in cui primeggiava Einstein. Se avesse provato Beethoven, per esempio, di certo sarebbe stato bocciato, eppure ha scritto la Nona sinfonia. Non è stato dunque un genio?. Il fatto è che l’intelligenza è un sistema complesso, in cui rientrano memoria, immaginazione, creatività, capacità di sintetizzare, e molto altro. Per ora non c’è un mezzo per misurare tutto questo. Né quindi per individuare un genio.

L’identikit
Alle stesse conclusioni è arrivato Howard Gardner, psicologo dell’università di Harvard: «L’intelligenza è composta da una serie di abilità intellettuali distinte. Ciascuna serve a risolvere problemi e nello stesso tempo a crearne di nuovi, per preparare il terreno a nuova conoscenza». Le intelligenze secondo Gardner sono sette: linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale (necessaria agli architetti), corporeo-cinestetica (quella dei danzatori), personale e interpersonale. Ciascuno di noi le possiede tutte ma in misura di versa e l’intelligenza globale è il risultato della loro cooperazione. «Il genio invece è colui che sviluppa in maniera straordinaria una di queste intelligenze, anche a discapito delle altre», dice Gardner. Per provare la sua tesi ha condotto una ricerca su sette geni riconosciuti, tra loro contemporanei: Eliot, Stravinskij, Einstein, Picasso, Martha Graham, Freud e Gandhi. Ognuno rappresenta l’eccellenza di una delle sette intelligenze individuate.

La regola dei dieci anni
In primo luogo Gardner ripercorre la vita dei sette, trovando parecchie analogie. Poi mette a confronto le sue intuizioni con i risultati di numerose altre ricerche psicologiche sul genio. E tira le somme: il genio non è tale fin dalla nascita. Occorrono almeno dieci anni di pratica perché emerga in tutta la sua importanza: Picasso, per esempio, soltanto con “Les demoiselles d’Avignon” (1907) infrange tutte le regole pittoriche precedenti e si impone come genio creativo. Picasso, come Mozart, era stato un bambino prodigio, ma in effetti dipingeva come Raffaello, cioè nel solco della più classica tradizione. Anche Mozart compose le prime opere notevoli solo dopo dieci anni di lavoro. In tutt’altro settore, Martha Graham: iniziò a ballare addirittura dopo i venti anni e la prima esibizione la fece a 30. E dopo dieci anni di lavoro Einstein elaborò la teoria della relatività, Eliot scrisse La terra desolata, Gandhi enunciò il satyagraha (pratica della non violenza). Con la “regola dei dieci anni” Gardner intende ovviamente controbattere la tesi di chi, come il Nobel John Eccles, sostiene che l’intelligenza abbia per il 60 per cento base genetica. Secondo gli innatisti, appunto, geni si nasce e non c’è alcun modo per contrastare il proprio destino biologico. James Watson, lo scienziato che ha scoperto il Dna, si spinge ancora più in là. Riferisce che da studi sui topi è emerso che le cellule genetiche del maschio nella formazione del cervello contribuiscono a formare l’ippocampo, mentre quelle della femmina “partecipano” anche alla corteccia. «L’intelligenza, conclude Watson, non solo è ereditaria, ma proviene dalla donna». E conclude con una spiegazione di tipo evoluzionistico: il maschio impiega più energia nel trasmettere i caratteri della forza, per procurare il cibo. Allora i geni dovrebbero ringraziare la loro mamma? Certamente l’intelligenza ha basi biologiche, perché è l’espressione dell’attività nervosa, ma non esiste al momento nessuna prova concreta che l’intelligenza sia ereditaria. Oltretutto, l’ereditarietà presuppone lo studio di ogni singolo gene: troppi per poterli individuare. E comunque non è ancora stato fatto. La verità, come sempre, sta nel mezzo. L’ intelligenza è basata sulle funzioni delle cellule nervose, i neuroni, e sui collegamenti tra l’uno e l’altro, detti sinapsi. Non c’è dubbio che più sono le sinapsi, più si è favoriti, ma il numero delle sinapsi dipende in parte da fattori specifici, come gli ormoni, e in parte dalle esperienze che facciamo. È come per il computer: c’è la macchina, ma se non si inserisce nulla in memoria, non parte». Il cervello, cioè, è come un muscolo: più si utilizza, più funziona.

Speranze per tutti
Naturalmente più l’esercizio avviene in tenera età e più è efficace. Il cervello di un bambino infatti possiede lo stesso numero di neuroni di quello di un adulto. Sono le sinapsi che gli mancano: nei primi mesi di vita queste aumentano bruscamente, raggiungono il massimo tra uno e due anni (quando sono il 50 per cento in più della densità media dell’adulto), declinano tra due e sedici anni e poi rimangono costanti fino ai 70 anni. E i conti tornano: lo psicologo americano Colin Berry, che ha studiato le famiglie degli scienziati premiati con il Nobel, ha scoperto che la maggioranza di essi sono figli di professionisti e sono cresciuti in una grande città, cioè hanno avuto stimoli culturali molto intensi durante la prima infanzia. Tra i premi Nobel, tra l’altro, sono più numerosi gli ebrei che i protestanti e i cattolici. Questo, secondo Berry, perché la religione ebraica prescrive ai genitori di istruire i figli fin dalla più tenera età. Un analogo studio, fatto da Gardner, conferma sostanzialmente i risultati di Berry. In più, aggiunge che il genio solitamente vive anche una condizione di marginalità: Einstein e Freud erano ebrei in Paesi di lingua tedesca, la Graham una donna, Gandhi, Eliot e Picasso vivevano in Paesi di lingua diversa dalla loro.

Come amico, un disastro
Ma gli studi psicologici hanno stabilito anche che per essere un genio non basta una super-intelligenza. Sono altrettanto importanti il carattere, la determinazione, l’ambizione. Per questo l’Institute of Personality Assessment dell’università della California ha studiato i ritratti psicologici di un centinaio di uomini creativi di ogni epoca. Ed ecco il risultato: il genio ha fiducia in sé, prontezza nel cogliere le situazioni, dedizione ossessiva al lavoro, vita sociale e hobby praticamente inesistenti, originalità. Caratteristiche dai risvolti spesso negativi: la fiducia in sé per esempio si trasforma in narcisismo, una scarsa vita sociale genera egoismo e indifferenza verso gli altri (Eliot e Einstein), se non vero e proprio sadismo (Picasso). Nello stesso tempo però il genio ha bisogno degli altri, perché l’accettazione da parte della società è l’unico criterio affidabile che ha per misurare la sua creatività. Non esiste quindi genio senza la vanità del successo e dell’esibizione di sé, cioè un misto di egocentrismo e desiderio di conquistare il mondo. E forse a questo si riferiva Baudelaire: «Il genio è la capacità di ristabilire i contatti con la propria infanzia».

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Un attimo di relax #171

Foto, citazione e libro della settimana sono il mio modo per regalarvi un minuto di relax.

“Sono il nuovo centrotavola””

Non preoccuparti solo di essere migliore dei tuoi contemporanei o dei tuoi predecessori. Cerca solo di essere migliore di te stesso.” ~ William Faulkner

Libro della settimana:

Saponi e Detersivi Naturali - Libro

L’abc delle vitamine

Ecco a voi un piccolo e comodo schema con tutte le informazioni necessarie sulle vitamine.

SU CHE COSA AGISCE DOVE SI TROVA QUANTA NE SERVE

A

Agisce sulla sensibilità della retina, su sintesi delle proteine e pelle. Se manca si hanno calo di vista notturno, acne, malattie della pelle. Spinaci, carote, latte,

fegato, burro, oli di fegato

di pesce. Nei vegetali

si trova sotto forma di

betacarotene o di caroteni.

Al dì ne servono 600 microgrammi alle donne,

700 agli uomini. Bastano 60

g di carote (purché condite

con un po’ d’olio o burro).

B1 Agisce sul metabolismo del

glucosio, sul sistema nervoso,

sul cuore. Se manca

(come si nota in molti anziani),

si rischiano nevriti.

Crusca, arachidi, noci, datteri,

lievito, carne, legumi,

patate, pane integrale.

Il prosciutto crudo

ne è l’alimento più ricco.

Ne servono 0,9 milligrammi

(mg) alla donna, 1,2 all’uomo.

Esempio: 100 g di pane

integrale con 100 g di fagioli

e 50 g di prosciutto crudo.

B6 Agisce sulla formazione del

sangue e sul sistema nervoso.

Se manca si rischiano

nevriti, malattie della pelle

con seborrea e acne.

Cereali integrali, banane,

noci, lievito, prugne, pesce,

fagioli, pomodori.

Servono dagli 0,4 mg (donne),

agli 0,7 mg al dì (uomini).

Cioè 2 porzioni di pane o

pasta integrale più un frutto

e una porzione di pomodori.

C Agisce sulla formazione

dei globuli rossi del sangue

e sul sistema nervoso.

Se non ce n’è abbastanza

si rischiano anemie.

Fegato, cervello, rene, latte,

uova, lievito, carne. Chi

segue una dieta vegetariana

corre il pericolo di carenza,

ma può rimediare col lievito.

Per uomini e donne la dose

giornaliera è di 2 microgrammi,

equivalenti

a 100 g di carne o 2 uova.

D Aiuta ad assorbire il calcio

e il fosforo, è necessaria

per crescere

e per proteggere i denti.

Frutta fresca e verdure,

agrumi, kiwi, pomodori,

prezzemolo.

Ne servono 45 mg al giorno

(di più se si fuma o se si è

stressati). Bastano 200 g

di broccoli o 100 di arance

o fragole o un kiwi.

E È antiossidante, protegge

le cellule e i tessuti.

Se manca, per esempio,

ci sono più rischi

in caso di gravidanza.

Oli vegetali, sedano,

fegato, more, germe

di grano, legumi.

Uomini e donne, 10 mg

al giorno. Cioè 2-3 cucchiai

di olio di mais o 5 di olio

di oliva oppure un cucchiaio

di olio di germe di grano.

K Collabora alla coagulazione

del sangue.

Verza, fegato, pollo, oli

vegetali e soia.

La flora intestinale

ne produce a sufficienza.

Si trova comunque

in molti alimenti, tra i quali

gli oli vegetali.

La dieta ideale: due frutti e tre pugni di contorno

È possibile mangiare abbastanza vitamine senza ricorrere ai supplementi?
Non dimenticando l’importanza di carne e pesce, negli Usa hanno calcolato quanti vegetali servono per rifornirsi a sufficienza di vitamine. L’hanno chiamata dieta “take five”, cioè “prendi cinque” porzioni al giorno di frutta e verdura., ed è la quantità minima per coprire il fabbisogno quotidiano di vitamine ». Una porzione equivale a un frutto oppure a una quantità di verdura grossa come un pugno.
Il mistero dei vegetali.
La via migliore per procurarsi vitamine utili alla salute è di consumare vegetali, soprattutto verdure, in abbondanza. Sono proprio i vegetali, non i supplementi, a essersi dimostrati davvero capaci di prevenire molte malattie. Ma che differenza c’è tra le vitamine di frutta e verdura e quelle in pillole? Nei vegetali probabilmente si trovano, oltre alle vitamine, sostanze non ancora identificate con chiarezza. E che, tutte insieme, esercitano un’azione protettiva efficace.
L’importanza di cambiare.
Non basta consumare abbastanza frutta e verdura, però: bisogna anche variarne il tipo, perché è indispensabile, per essere certi di fare un rifornimento completo. L’ideale è mangiare ogni giorno due frutti e tre qualità di verdura diverse: per esempio, una porzione di insalata, un’altra di verdura cruda, una cotta.
Cinque novità al mese.
E per chi è portato a mangiare sempre le stesse cose, c’è un trucco: imporsi di assaggiare in un mese cinque tipi di frutta e verdura mai sperimentati prima. Purché di stagione, e non esotici.

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Vitamine: vero e falso.

Se l’uomo fosse efficiente come la mosca, fabbricherebbe 10 grammi di vitamina C al giorno. Invece non ne produce affatto. Se ruminasse come la mucca, saprebbe sintetizzare un altro gruppo indispensabile di vitamine, che si sciolgono nei grassi e perciò sono dette liposolubili. Macché: in questo campo siamo incapaci di cavarcela da soli e ci dimostriamo inferiori alla maggioranza degli animali. Gatti e cani vivono senza frutta e verdura, ricche di vitamine. Noi, se ci provassimo, moriremmo. E anche piuttosto dolorosamente. Se dovesse mancare nel nostro cibo la prima vitamina in ordine alfabetico, cioè la A (contenuta, tra l’altro, nell’olio di fegato di pesce, nel rosso d’uovo e nel burro), alcune cellule degli occhi comincerebbero a funzionare alla rovescia. Anziché produrre il muco che lubrifica la cornea, deporrebbero una proteina secca, la cheratina. Come se ci riempissero gli occhi di sabbia. La malattia è la xeroftalmia, che oltre un certo stadio porta alla cecità irreversibile. Insomma: è fuori strada chi crede che le vitamine servano soltanto contro il raffreddore. Hanno un ruolo ben più complesso. In comune hanno due cose: sono esogene, cioè il nostro corpo in genere non le produce, e se ne usano quantità minime, pochi milligrammi o microgrammi al giorno.

Una leggenda da sfatare
La questione è proprio questa: a un certo punto si è cominciato a pensare (alcuni ancora lo credono) che più vitamine si prendono, meglio è per la salute. Ma non è vero. Una ventina di anni fa, si scoprì che la vitamina A, oltre alle sue funzioni “normali” (mantiene integra la pelle e aiuta la funzione visiva), riusciva anche a regolare la riproduzione e moltiplicazione cellulare, il processo che si altera nel caso dei tumori. Scoperto questo, si pensò di provare gli effetti antitumorali delle vitamine (non soltanto la A) in dosi massicce. Con risultati sorprendenti, ma purtroppo in senso negativo. Fra gli studi epidemiologici più clamorosi, ce n’è uno finlandese (su 30 mila fumatori maschi) e uno americano, il cosiddetto Caret (25 mila maschi scelti fra fumatori e addetti alla lavorazione dell’amianto). Lo studio finlandese voleva provare se forti dosi di betacarotene (sostanza dalla quale il corpo umano ricava la vitamina A) e vitamina E potessero prevenire il cancro ai polmoni. Nel gruppo trattato con vitamina E si ottenne un’impennata di ictus emorragici mortali, in quello che riceveva betacarotene, invece, un eccesso di morti per tumore polmonare. Esattamente lo stesso effetto dello studio Caret. L’aumento dei tumori polmonari spinse a interrompere la ricerca dopo soli quattro anni, contro i dieci previsti. Conclusioni: per ora quantità supplementari di queste vitamine si sono rivelate inutili se non dannose.
Niente megadosi, dunque, meglio puntare sull’alimentazione. Ma in quali cibi si trovano le vitamine? Su quali organi agiscono? E che accade se mancano, o sono troppo abbondanti? Per rispondere (sfatando qualche pregiudizio) seguiamo il loro cammino cominciando dall’inizio, e cioè dalla prima colazione.

Al mattino? B, C e D
Al mattino, oltre al caffè, ci vogliono energie. Zuccheri, dunque. Per utilizzarli si ricorre ad alcune vitamine del gruppo B, che troviamo nel pane e nel latte. Senza la B1 e la B2 non avremmo energia. La B1 (o tiamina), produce acetilcolina, che permette alla cellula di utilizzare i carboidrati e influisce sulla velocità di trasmissione degli impulsi nervosi. Se manca, i muscoli, cuore compreso, non lavorano e la macchina umana si ferma. La carenza di tiamina (si trova nei cereali integrali, nel latte, nella frutta secca e in alcuni ortaggi, ma soprattutto nella carne) provoca il beri-beri, la “malattia della stanchezza”. Ai malati di beri-beri, per guarire, basta mangiare riso integrale (ricco di tiamina) anziché riso raffinato, mentre per far riprendere dal coma i casi più gravi si somministra vitamina B1 in alte dosi.
Nel latte intero troviamo la vitamina B2 (o riboflavina): aiuta a trasferire energia alle cellule per la sintesi delle proteine e si concentra nel fegato. Come tutte le vitamine del gruppo B è piuttosto delicata: sensibile soprattutto alla luce. Buona idea, dunque, confezionare il latte nel cartone anziché nelle bottiglie trasparenti. A proposito di latte: mentre lo beviamo, se c’è un po’ di sole, mettiamoci alla finestra. Rinforza le ossa. Il corpo umano, infatti, è in grado di sintetizzare, attraverso la pelle, una parte di vitamina D (o calciferolo, contenuta anche nel latte) partendo dalla luce solare. Più l’epidermide è bianca, maggiore è la capacità di produrre calciferolo: in un nordico è doppia rispetto a un africano. Semplice il motivo. Poiché in Africa il sole è più efficace, la pelle scura fa da filtro per evitare l’eccesso di vitamina D, che provocherebbe sete, pruriti, diarree, depositi di calcio nelle vene e nei reni.

Kiwi antiveleno
I dietologi insistono perché al mattino si consumi frutta, meglio se agrumi o kiwi, che contengono vitamina C, l’acido ascorbico. È una vitamina di pronto intervento: tampona l’azione nociva dei radicali liberi a mano a mano che si formano. Le scorte vanno rinnovate di freuente: abbiamo un’autonomia massima di due o tre giorni. Partecipa alla produzione di anticorpi (ecco perché è anti-infettiva), inattiva alcune tossine, protegge da veleni come fosforo e benzolo, aiuta ad assorbire il ferro. Per averne abbastanza è sufficiente mangiare frutta al mattino, verdura cruda a pranzo e a cena.

Non sempre l’olio fa bene
Contenuta nel germe dei cereali, nelle uova e negli ortaggi a foglie (broccoli, broccoletti, spinaci), la vitamina E, o tocoferolo, protegge dalla degradazione la vitamina A e dall’ossidazione i grassi polinsaturi (quelli, per intenderci, dell’olio di semi), fino a qualche anno fa considerati capaci di difendere cuore e arterie da infarti e aterosclerosi. Ma ora si è scoperto che troppi grassi polinsaturi, soprattutto se ossidati perché accompagnati da poca vitamina E, sono dannosissimi. Durante la giornata è anche bene fare scorte di pro-vitamina A, o retinolo, non solo per la vista, ma anche per conservare la pelle integra. Alcuni alimenti la contengono direttamente (uova, latticini, burro, carne), altri sono ricchi del suo precursore (il betacarotene della frutta e della verdura di colore giallo-arancio: albicocche, cachi, zucca e carote). Sulla pelle, una crema alla vitamina A viene usata per curare ittiosi e ipercheratosi (cioè un ispessimento dello strato corneo), serve anche come efficace antirughe (mai però sotto il sole: in crema, la vitamina A rende la pelle sensibile alla luce e può macchiarla indelebilmente). Resta un’ultima vitamina liposolubile, la K. L’uomo ne produce quantità più che sufficienti: la sintetizzano, infatti, i batteri della flora intestinale. Una cura di antibiotici potrebbe distruggere la flora batterica e privare l’organismo della vitamina K, che interviene nel processo di coagulazione del sangue. Se non prescritti dal medico, però, vietatissimi i supplementi: un sovradosaggio può avere gravi effetti su cuore e circolazione.

A pranzo: carne o pesce
A pranzo e cena, mangiando carne o pesce ci riforniamo di altre vitamine del gruppo B: per esempio la B3, o niacina. È chiamata anche PP, cioè “pellagra preventiva”, perché chi ne aveva una forte carenza veniva colpito dalla malattia, che attacca pelle, apparato gastrointestinale e sistema nervoso centrale. La vitamina PP aiuta a produrre e utilizzare le proteine. Per averne abbastanza, bisogna mangiare almeno mezza porzione di secondo a pranzo e una porzione a cena. Quanto alle altre vitamine del gruppo B, la B5 (acido pantotenico), la B6 (piridossina), la B12 (cobalamina) entrano nel metabolismo dei nutrienti, nell’utilizzo di altre sostanze (la B6 e la B12 sono antianemiche, per esempio), nella sintesi del Dna e nella riproduzione cellulare. Molto importante, infine, l’acido folico, che lavora con la vitamina B12. Se manca durante la gravidanza, può dare malformazioni al feto. Il rischio più alto è la spina bifida, che colpisce 4 neonati su mille: uno studio americano su 23 mila donne ha confermato che il supplemento di acido folico nei tre mesi precedenti il concepimento e nei primi tre mesi di gravidanza riduce del 75 per cento il rischio di questa malformazione. Fuori dalla gravidanza, comunque, i supplementi non servono.

Conclusione
Alla fine della giornata è una sola. Le vitamine ci consentono di vivere.Ci servono in quantità minime. Il limite di flessibilità dell’organismo di fronte a dosi massicce dev’essere valutato con molta attenzione. E i supplementi? Forse in futuro riusciremo a scoprire cocktail di vitamine sintetiche calibrati in maniera tale da poter davvero curare o prevenire malattie. Per ora, la scienza non ha ottenuto risultati. Non ci resta che mangiare con intelligenza.

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Un attimo di relax #170

Foto, citazione e libro della settimana sono il mio modo per regalarvi un minuto di relax.

“Che sonno!””

La felicità e l’infelicità degli uomini dipende tanto dalla loro buona sorte quanto dal loro umore.” ~ François De La Rochefoucauld

Libro della settimana:

Saponi e Detersivi Naturali - Libro

Ansiolitici: lo sapevate che…?


In questo post prendo in esame i farmaci ansiolitici, soffermandomi sul Delorazepam, di cui esiste sia il generico che il commerciale (il famoso “En”). E’ uno degli ansiolitici più venduti al mondo, è un farmaco derivato dalla benzodazepine.

Ci sono alcune informazioni che riguardano questi farmaci che non sempre il paziente riceve al momento della prescrizione, o, se le riceve, è il paziente stesso a sottovalutarle.

Lo sapevate che viene spesso prescritto inutilmente?
Partiamo dalle indicazioni terapeutiche e p
rendiamo i dati dal bugiardino: “Stati di ansia. Squilibri emotivi collegati a stress situazionali, ambientali e ad affezioni organiche acute e/o croniche. Distonie neurovegetative e somatizzazioni dell’ansia a carico di vari organi ed apparati. Sindromi psiconevrotiche. Nevrosi depressive. Agitazione psicomotoria. Stati psicotici a forte componente ansiosa e con alterazioni dell’umore. Disturbi del sonno di varia origine.”
E infine, da notare bene: “Le benzodiazepine sono indicate soltanto quando il disturbo è grave, disabilitante o sottopone il soggetto a grave disagio.”

A questo punto sorge una domanda: chi deve prescrivere l’ansiolitico? Ovvero chi è meglio in grado di diagnosticare uno dei disturbi elencati fra le indicazioni terapeutiche?
I più indicati sono gli psichiatri, i neurologi e i medici di famiglia. Agli altri specialisti, ad esempio quelli che sospettano “somatizzazioni dell’ansia a carico di vari organi ed apparati”, suggerirei solo di indicare l’ansia come possibile causa della patologia che hanno diagnosticato e di indirizzare il paziente presso uno dei tre specialisti prima elencati. I motivi principali, per cui i colleghi delle altre discipline dovrebbero solo indicare la via e non prescrivere il farmaco sono:  la somministrazione va seguita nel tempo; va valutato il percorso che porta alla sospensione; va fatta una visita finale. Ve lo immaginate ad esempio un cardiologo che vi visita per sapere come va l’ansiolitico? Non vi sembra un po’ fuori luogo?

In qualsiasi caso andrebbe comunque fatta una corretta a approfondita anamnesi (soffermandosi sugli aspetti psicologici del paziente) che miri a capire le cause e a trovare le soluzioni adatte ad ogni singolo caso.

La parte che però ritengo fondamentale è quella finale. Siamo certi che le benzodiazepine siano prescritte solo quando il disturbo è grave, disabilitante o sottopone il soggetto a grave disagio? Se fosse così sarebbe difficile spiegare il motivo per cui sono fra i farmaci più venduti al mondo. Un’ipotesi potrebbe essere questa: i medici non conoscono o non si fidano delle alternative. Quali sono? La psicoterapia e/o i rimedi naturali (tra questi i più utilizzati e conosciuti sono la valeriana, la passiflora, il biancospino e l’iperico). Come molte ricerche scientifiche dimostrano (ad esempio “Efficacia della psicoterapia nel trattamento del disturbo di panico con agorafobia” link), non c’è nessuna differenza fra questi rimedi e il farmaco.

Lo sapevate che viene spesso assunto per mesi o per anni?
Adesso vediamo la posologia e modo di somministrazione, s
empre dal bugiardino: “Il trattamento dell’ansia dovrebbe essere il più breve possibile. Il paziente dovrebbe essere rivalutato regolarmente e la necessità di un trattamento continuato dovrebbe essere valutata attentamente, particolarmente se il paziente è senza sintomi. La durata complessiva del trattamento, generalmente, non dovrebbe superare le 8-12 settimane, compreso un periodo di sospensione graduale. In determinati casi, può essere necessaria l’estensione oltre il periodo massimo di trattamento; in tal caso, ciò non dovrebbe avvenire senza rivalutazione della condizione del paziente.

Una domanda: quante persone conoscete che prendono ansiolitici senza sosta da diversi anni? C’è davvero qualcosa che non quadra! Questa è una di quelle informazioni che dovreste sapere tutti, la prima informazione che il medico dovrebbe dare al paziente, preoccupandosi che il paziente l’abbia ricevuta bene sia in prima battuta che nelle successive visite di controllo.  A giudicare dai risultati non credo che sia così.

Lo sapevate che l’assunzione causa una dipendenza difficile da curare?
Vediamo le speciali avvertenze e precauzioni per l’uso, d
al bugiardino: “L’uso di benzodiazepine può condurre allo sviluppo di dipendenza fisica e psichica da questi farmaci. Il rischio di dipendenza aumenta con la dose e la durata del trattamento; esso è maggiore in pazienti con una storia di abuso di droga o alcool. Una volta che la dipendenza fisica si è sviluppata, il termine brusco del trattamento sarà accompagnato dai sintomi di astinenza.
Lo sapevate? Sapevate anche che aumenta con il passare del tempo? Che dopo anni di uso continuato curare la dipendenza da ansiolitici è difficile quanto curare la dipendenza da alcool o droghe?
Infatti i pazienti che sono diventati dipendenti dalle benzodiazepine, alle dosi terapeutiche, normalmente sono accumunati da diverse delle seguenti caratteristiche (cfr. The Ashton Manual):

  • Hanno assunto benzodiazepine su prescrizioni mediche in dosi “Terapeutiche” (normalmente basse) per mesi od anni.
  • Hanno, gradualmente, sentito il bisogno di assumere benzodiazepine per svolgere le normali attività quotidiane.
  • Hanno continuato ad assumere benzodiazepine, nonostante il motivo che ne aveva in origine fatto scaturire la prescrizione fosse cessato.
  • Hanno difficoltà a sospendere l’assunzione del farmaco, o a ridurlo, a causa dell’insorgere dei sintomi da astinenza.
  • Nell’assunzione di benzodiazepine ad emivita breve,  sviluppano sintomi di ansia, tra una somministrazione e l’altra, o hanno un forte desiderio di assumere la dose seguente.
  • Contattano regolarmente il loro medico per ottenere ripetutamente le ricette necessarie per continuare il trattamento.
  • Diventano ansiosi se la ricetta successiva non è subito disponibile. Devono avere sempre con sé il farmaco. Possono assumerne una dose prima di un evento che ritengono possa loro generare stress, o nel caso di dover trascorrere una notte in un luogo diverso dalla solita camera.
  • Possono aver aumentato la dose, rispetto a quella indicata, inizialmente, nella prima prescrizione medica.

Se la risposta a tutte e tre le domande è stata si vi faccio i miei complimenti, siete persone ben informate e probabilmente anche il vostro medico ha saputo fornirvi tutte le indicazioni necessarie. Se invece la riposta anche ad una sola delle domande è risultata negativa ed assumente una benzodiazepina da più di 8-12 settimane, vi consiglierei di tornare dal vostro medico (o da uno specialista) e cercate urgentemente una soluzione.

Bibliografia
Monografia Delorazepam
The Ashton Manual
Articolo scientifico “Efficacia della psicoterapia nel trattamento del disturbo di panico con agorafobia”
Pagina wikipedia Delorazepam

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Un attimo di relax #169

Foto, citazione e libro della settimana sono il mio modo per regalarvi un minuto di relax.

“Svegliatemi quando arriva la primavera…””

La bellezza ci può trafiggere come un dolore.” ~ Thomas Mann

Libro della settimana:

Consigli dal Cuore - Libro

Il fascino dei labirinti.

Siete al centro di un labirinto. Cercare di uscirne a tentativi sembra insensato: ogni corridoio si apre in altri meandri. Nessuno strumento può aiutarvi, né la bussola né la radio. Come fate a uscirne?

Il rischio? Girare in tondo
Il primo a studiare seriamente questo problema fu il matematico inglese William Rouse Ball, forse durante le passeggiate nel labirinto del suo giardino: la sua conclusione fu che basta poggiare una mano su una parete e, senza staccarla mai, camminare fino all’uscita. Aveva ragione, ma non nel 100 per cento dei casi: con questo trucco si corre infatti il rischio di girare in continuazione intorno a una parete isolata, come nel Blenheim Palace progettato da Adrian Fisher, un esperto mondiale nella costruzione di labirinti. La tecnica di fuga perfetta richiede che sia consentito lasciare tracce lungo il percorso, e fu trovata dal matematico francese Tremaux: si procede a caso fino a quando si arriva a un vicolo cieco oppure a una via già percorsa, e in tal caso si torna indietro e si imbocca, appena possibile, una via inesplorata. Se poi si ha a disposizione un computer, di algoritmi d’uscita se ne trovano a bizzeffe. Per esempio, si può riempire il labirinto d’acqua, virtualmente, con velocità uniforme, e poi ricostruire il cammino inverso della goccia che arriva per prima (basta marcare il centro con un “sensore”).

In Giappone durano di più
Questi trucchi si possono applicare a labirinti di tutti i tipi: percorsi circolari, triangolari, esagonali, a piani multipli, “aperti” (nel senso che se si esce da destra si rientra da sinistra) e così via. Ma quel che attira il pubblico non sono tanto le tecniche di soluzione, quanto il poter vivere di persona l’esperienza del labirinto, reale o virtuale che sia. Giochi elettronici come Doom o Prince of Persia, ambientati in labirinti, hanno avuto un grande successo anche per la sfida che lanciavano al senso dell’orientamento dei giocatori. nel gioco Diablo 2 è stato inserito un generatore casuale di labirinti che crea un percorso diverso a ogni nuova partita. L’elettronica non ha però soppiantato il fascino dei labirinti reali, fatti di siepi, cemento, legno, o addirittura acqua, come nel Parc de la Mer on Jersey, in Inghilterra. «Questa è l’epoca d’oro dei labirinti » afferma Fisher, autore di oltre 200 labirinti in 17 nazioni. «Il numero totale di labirinti aperti al pubblico nel mondo è quasi raddoppiato nell’ultimo decennio». Ce n’è per tutti i gusti: dal pavimento della Grace Cathedral di San Francisco, ai labirinti artistici dello scozzese Jim Buchanan, ai complicatissimi labirinti giapponesi, come quello di Funabushi, composto da più parti collegate tramite ponti per simulare una struttura tridimensionale. Sono proprio i giapponesi i più fanatici. «In Giappone» spiega Fisher «i “giocatori” si aspettano che la risoluzione di un labirinto duri quanto un film o una partita di calcio, mentre in Europa la gente preferisce uscirne in mezz’ora». L’arte di Fisher è proprio quella di far sì, usando la giusta quantità di crocevia, che tutti escano nello stesso tempo, minuto più minuto meno.

Simbolo universale. Ma perché i labirinti ci affascinano?
Forse perché sono presenti nei nostri ricordi ancestrali. Quello del labirinto, infatti, è un concetto antichissimo. Il primo, scoperto nel 1888, fu costruito dal faraone Amenemhet III a protezione della sua tomba, nel 1800 a. C. Secondo Erodoto, che lo visitò nel 450 a.C., era più complesso di “tutti gli edifici della Grecia messi insieme”! Poi c’è quello di Creta, il più famoso dell’antichità. Secondo la leggenda fu costruito da Dedalo ed era abitato dal Minotauro, ma più probabilmente si trattava del palazzo del re Minosse, nella città di Cnosso. Ne rimane testimonianza nel simbolo impresso sulle monete cretesi (un millennio più tardi): un intricato percorso, che porta inesorabilmente dall’esterno all’interno. Questo simbolo misterioso associato al labirinto, composto da sette avvolgimenti, ha forse origini ancora più antiche e potrebbe simboleggiare la Dea Madre o la scomparsa Atlantide, che secondo Platone sarebbe stata circondata da sette cerchi di terra e acqua. Di certo la figura comprende altri due simboli antichissimi, la croce e la spirale, ed è stata ritrovata nelle più diverse zone del pianeta: dall’Arizona precolombiana degli Hopi alle sabbie della pianura di Nazca, in Perù, fino all’isola di Sumatra, in Indonesia.

Trui
In Europa, il simbolo del labirinto non è associato solo a Creta, ma anche alla città di Troia, protetta da sette mura. Si è scoperto che i pastori del Galles tracciavano il simbolo nel prato, e lo chiamavano “Caerdroia”, che oggi gli studiosi interpretano come “Città di Troia” o “città delle svolte”. Secondo la leggenda, infatti, la Gran Bretagna prende il nome da Bruto, nipote di Enea, che la fondò insieme ai prigionieri che egli stesso liberò proprio da Troia. Un labirinto con la scritta “Trui” (Troia) è stato trovato anche su un vaso etrusco a Tragliatella, vicino a Cerveteri. Nel Medioevo il labirinto rappresentava Gerusalemme, la città sacra, e aveva sempre una croce al centro, come nella cattedrale gotica di Chartres, in Francia. Si pensa che i fedeli percorressero il tracciato, forse in ginocchio, come “surrogato” di un viaggio in Terrasanta. Nei secoli successivi, comunque, gli stessi labirinti furono utilizzati per danze o giochi simbolici, proprio come nei labirinti all’aperto, in Germania (per esempio ad Hannover) e in Polonia. In Inghilterra, invece, i labirinti all’aperto venivano usati anche per competizioni atletiche: nel XVIII secolo i giovani facevano a gara per raggiungere la fanciulla nel centro! In Norvegia, fino all’inizio del ’900, i pescatori camminavano lungo un labirinto immaginario prima di uscire in mare: lo scopo era quello di condurre i venti cattivi nel centro e qui intrappolarli.

Un viaggio interiore
Il fascino dei labirinti deriva quindi dal loro valore simbolico e tradizionale? Quel che è certo è che i labirinti sono usati da millenni come simboli di meditazione, di viaggio interiore. Trasmettono curiosità per l’ignoto: ciò che si troverà al centro

Onde cerebrali
Qualunque sia la risposta, quando cerchiamo di districarci in un labirinto, nel nostro cervello si propagano onde elettriche della frequenza di 4-8 oscillazioni al secondo, le cosiddette “onde teta”. In genere l’attività del cervello appare come una serie confusa di impulsi. Ma ogni tanto i segnali si amplificano e formano oscillazioni ben distinte. «Le onde teta compaiono quando gli animali eseguono particolari compiti spaziali, motori e cognitivi» spiega Micheal J. Kahan del dipartimento di neurochirurgia del Children’s Hospital di Boston, Usa. Queste onde poco conosciute viaggiano un po’ in tutto il cervello, ma principalmente nell’ippocampo, la zona della navigazione spaziale.Fino a poco tempo fa erano state osservate solo nei topi, perché per gli esperimenti è necessario applicare gli elettrodi direttamente alla corteccia cerebrale. Sembrava impossibile farlo con l’uomo. Ma l’anno scorso Kahan ha trovato una soluzione: perché non chiedere la collaborazione di pazienti epilettici gravi, che a causa della malattia devono comunque avere tali elettrodi? Sotto l’occhio degli scienziati, i pazienti hanno risolto vari labirinti elettronici, prima seguendo frecce indicatrici, poi senza più aiuti. «Abbiamo osservato che le onde teta sono davvero collegate a questo tipo di attività cerebrale, e appaiono essere tanto più frequenti quanto più complessi sono i labirinti» conclude Kahan.

Domanda finale: quale famoso labirinto è rappresentato nell’immagine del post?

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Un attimo di relax #168

Foto, citazione e libro della settimana sono il mio modo per regalarvi un minuto di relax.

“Che stai facendo??””

La sofferenza è una specie di bisogno dell’organismo di prendere coscienza di uno stato nuovo.” ~ Marcel Proust

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Le Sette Leggi Spirituali dei Supereroi - Libro

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