
L’uomo? Immaginatelo come una sonda spaziale, programmata per arrivare su un lontano pianeta, fotografarlo e poi allontanarsi nel cosmo. Negli anni, questa macchina perfetta è destinata a distruggersi. Ma il tempo necessario perché ciò avvenga può variare, e dipende dalla distanza tra la base e il pianeta da fotografare. Una volta esaurita la sua missione, che è quella che interessa agli studiosi, la sonda viene abbandonata a se stessa nella seconda parte del viaggio, che potrà essere più o meno lungo. Alex Comfort, uno dei più noti gerontologi, spiega così il meccanismo dell’invecchiamento: l’uomo è in viaggio verso un evento fondamentale (la propria riproduzione). Avvenuta questa, non ha più scopo biologico. Secondo questa ipotesi, i geni umani modificherebbero la propria funzione in base all’età. Prima, durante il viaggio di “andata”, avrebbero il compito di perpetuare la specie, privilegiando l’aspetto riproduttivo. Terminata la loro missione, sarebbero poi responsabili della senescenza. Tra i tanti meccanismi ipotizzati per spiegare il fenomeno dell’invecchiamento, quello che prevede un fondamentale ruolo della genetica è sicuramente il più affascinante e, allo stato attuale, anche il più credibile. Con tutta probabilità, visto che la vita dell’essere umano ha un limite biologico accertato (120 anni, età raggiunta dal giapponese Shigechiyo Izumi, nato nell’isola di Tokunoshima), questa programmazione è dovuta al nostro patrimonio genetico. Non solo i geni, tuttavia, bastano a spiegare il problema della longevità. La prova viene dal confronto tra uomo e scimpanzé: a fronte di una differenza genetica inferiore al 2 per cento, lo scimpanzé ha una durata massima di vita che è circa la metà di quella dell’uomo. Probabilmente il “fenomeno invecchiamento” nasce da un insieme di caratteristiche genetiche e inlefluenze ambientali. Ma non ci sono dubbi che proprio il genoma sia altamente responsabile della differente longevità che si osserva negli individui.
Quando il Dna sbaglia…
In questo senso assume particolare interesse una ricerca condotta da alcuni studiosi dell’università del New Jersey che hanno dimostrato come alcuni fibroblasti (cioè le cellule del tessuto che sostiene il corpo), dopo essere stati resi immortali in laboratorio attraverso il contatto con particolari virus delle scimmie, perdano questa loro capacità di superare senza danni le ingiurie del tempo semplicemente quando entrano in contatto con una porzione del cromosoma umano 6, cioè il suo braccio lungo. Questa osservazione conferma che la chiave genetica del processo di senescenza probabilmente esiste, e che forse, pur trattandosi con tutta probabilità di un fenomeno poligenico (di cui cioè sono responsabili diversi geni), bisogna indagare proprio sul cromosoma 6 per saperne di più. La nostra vita è scritta nei geni, quindi. Ma forse non nel modo in cui ipotizza Comfort: non esisterebbero cioè geni programmati per svolgere una determinata funzione nell’età giovanile e poi, una volta superata questa fase, per indurre lentamente all’invecchiamento. Probabilmente la senescenza è legata a un meccanismo “wear and tear”, cioè dei “logorii e degli strappi”. Secondo questa teoria, esiste una serie di fenomeni esterni che vanno a influenzare le capacità di riproduzione perfetta del materiainle genetico umano. I loro nomi: infezioni virali, radiazioni, inquinamento, fumo. Questi, favorirebbero gli errori nella replicazione del Dna (errata riproduzione della doppia catena, deficit nella trasmissione del messaggio genetico da parte dell’Rna messaggero, la copia del Dna che serve per la produzione di nuove strutture). Per qualche tempo l’organismo riesce autonomamente a rimediare a questi danni, cui quotidianamente sono esposte le nostre cellule, attraverso particolari mezzi di riparazione (anche questa capacità riparativa sembra essere in qualche modo influenzata dalla predisposizione genetica di ognuno). In pratica esisterebbero dei geni capaci di controllare i processi che si oppongono all’invecchiamento. Una specie di cortina difensiva presente nel nostro Dna, che favorirebbe la messa in atto dei sistemi di riparazione: correggerebbe gli errori che si formano nel Dna (alterazioni della composizione specifica della doppia catena dell’acido), metterebbe in atto i sistemi antiossidanti (che catturano i radicali liberi, cioè particelle atomiche con cariche elettriche capaci di danneggiare il patrimonio genico), faciliterebbe la produzione di proteine da stress (incrementando quindi la risposta dell’organismo di fronte ad agenti esterni) e addirittura eliminerebbe le cellule malate attraverso una sorta di “morte cellulare programmata”. La presenza di queste armi difensive, il cui controllo è genetico, potrebbe forse spiegare il mistero della senescenza.
Lo stress benefico
Nel Dna di ognuno sarebbero infatti scritte le informazioni per la messa a punto di questa rete protettiva: e proprio il fatto che tutto sta nel Dna, spiegherebbe anche la “familiarità” dell’invecchiamento. In pratica, se questa teoria fosse confermata, la senescenza di ognuno sarebbe legata a un sorta di battaglia tra geni che tendono a favorire il danno al Dna, e meccanismi che lo contrastano. Questa ipotesi potrebbe essere indirettamente confermata anche dal fenomeno della cosiddetta ormesi. Sembra infatti che basse dosi di sostanze potenzialmente tossiche, come i pesticidi o gli agenti ossidanti, allunghino la vita invece che accorciarla. Questo potrebbe essere spiegato dallo stimolo che questi “stress” inducono sui meccanismi di difesa che vengono stimolati a lavorare al meglio. Se questa ipotesi fosse confermata, poi, si potrebbero aprire nuove speranze per la “prevenzione” dell’invecchiamento. Visto che il meccanismo difensivo è controllabile e influenzabile da situazioni esterne, come accade nella longevità da ormesi, si può ipotizzare che altri elementi ancora da scoprire possano in qualche modo “rafforzare” la cortina anti invecchiamento.
