Psiche e Soma

Ricette per una vita migliore!

Month: giugno 2011 (Page 1 of 2)

In ginocchio! Parte 2

Ecco la seconda parte del post sul ginocchio. La prima parte la trovate QUA.

Riduzione di statura
Le origini dell’inginocchiamento come atto di sottomissione sono nell’antico Egitto: nella tomba di Tutankamon fu rinvenuto un anello in oro massiccio, a forma di cartiglio, che raffigurava il re, inginocchiato, intento a offrire doni alla dea Maat. Ancora oggi la preghiera e l’ingresso nei luoghi sacri richiede la genuflessione, un atto simbolico per sembrare più piccoli, e quindi sottomessi, innanzi a un potente. Dal punto di vista anatomico, il ginocchio è uguale nell’uomo e nella donna e persino in molti animali, come nei cani e nei gatti, la struttura è sempre quella. È l’articolazione che ha a monte l’estremità inferiore del femore (l’osso della coscia), e a valle l’estremità superiore della tibia (l’osso principale del polpaccio) e in mezzo la rotula, quell’ossicino piatto e rotondo che sembra sospeso davanti alle due ossa lunghe. Il femore termina con due protuberanze quasi sferiche (i condili), come gli ossi dei cani dei fumetti. La tibia, che sta al di sotto, ha invece la forma di un capitello e si appoggia al femore con due specie di piatti, ognuno dei quali accoglie uno dei condili del femore.

Una cerniera anatomica
Proprio qui si trovano i famosi menischi, croce e delizia di sportivi e ortopedici: due cuscinetti molli a forma di semiluna, più spessi ai bordi e piatti al centro, che si deformano a ogni movimento avanti o indietro, facendo aderire le ossa. I menischi raddoppiano la superficie di contatto fra tibia e femore e dimezzano la pressione su ogni punto; abbracciando il femore, contribuiscono a tenerlo saldo sopra la tibia. A stabilizzare l’articolazione intervengono i due legamenti crociati, chiamati così perché si incrociano a X dentro l’articolazione. Ai lati due legamenti trattengono il ginocchio in posizione: i collaterali. La rotula ha l’unica funzione di proteggere la struttura sottostante.Tutta questa complessità ha un senso: il ginocchio deve sostenere il peso del corpo, quando è fermo e soprattutto quando si muove. Il sovrappeso lo danneggia perché lo costringe a sopportare un carico eccessivo, per il quale non è attrezzato. Da fermi, si tratta “solo” dell’intero peso corporeo (escluso ovviamente il peso della parte inferiore). Ma in movimento questo carico viene moltiplicato per 3, per 4 o anche di più, a seconda che si cammini, si facciano le scale (soprattutto in discesa!) o si corra.

Donne a rischio
Tra uomini e donne le differenze cominciano in traumatologia. Le donne, infatti, a parità di età e di attività sportiva, hanno, rispetto ai maschi, un maggior rischio di torsione del ginocchio e quindi di danneggiare le strutture di sostegno dell’articolazione. Soprattutto per tre motivi: intanto perché la loro muscolatura è meno sviluppata. I muscoli infatti sono importanti per mantenere il ginocchio in posizione quasi quanto menischi e legamenti: se i muscoli sono molto robusti, il ginocchio si mantiene stabile lo stesso, cosa che ha permesso, per esempio, a Paolo Rossi di giocare i Mondiali del 1982 nonostante 3 menischi rotti. Poi c’è una questione di debolezza legamentosa, che sembra essere maggiore nel gentil sesso. E, infine, tra uomini e donne c’è un’importante differenza anatomica nel bacino, stretto nei maschi e largo nelle femmine. Così, mentre negli uomini femore e tibia sono uno sull’altra praticamente in verticale, nella donna la coscia tende a essere leggermente inclinata rispetto all’asse della gamba. Questo problema di disassamento è particolarmente presente nel caso del ginocchio varo (gambe da cavallerizzo) e del ginocchio valgo (gambe a X). Nel ginocchio varo, pur avvicinando i piedi, le ginocchia restano lontane. In quello valgo le ginocchia si avvicinano, ma restano lontani i piedi. In entrambi i casi il peso grava prevalentemente su metà ginocchio, usurandola e facilitando l’insorgere di un’artrosi femoro-tibiale interna (varismo) o esterna (valgismo). Nelle signore, anche l’artrosi del ginocchio ha un’incidenza doppia rispetto agli uomini, e sono proprio i danni alla struttura articolare a favorirne la comparsa. Se una, cioè, ha le ginocchia storte e si rompe un menisco, dopo i 50 anni ha più probabilità di andare incontro ad artrosi del ginocchio, soprattutto se è sovrappeso.

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In ginocchio! Parte 1

Lo portiamo sempre con noi, anche se sarebbe meglio dire che è lui che porta noi. Esiste nella versione “della lavandaia”, “del prete” e “del saltatore”. Chi deve farsi perdonare ci cammina sopra, mentre chi si annoia può averne due pieni di latte. E quando si rompe, come è successo a Fidel Castro e a Roberto Baggio, sono guai. È il ginocchio, una delle articolazioni più complesse del corpo umano, capace di tenerci in piedi, di farci correre, nuotare, saltare e volare in alto su un’altalena. In due parole, capace di sostenere il nostro peso e di far muovere il nostro corpo.

Sinonimo di guancia?
Un’articolazione fondamentale nella vita di tutti i giorni, quindi. Il suo nome deriva da un diminutivo, il cui significato iniziale era “piccolo ginocchio, ginocchino”. Gli antichi Romani, infatti, il ginocchio lo chiamavano solo genu. Poi prevalse l’uso di geniculum (che nel Medioevo divenne genuculum), probabilmente perché la parola “genu” si confondeva con un altro termine indicante una parte del corpo, cioè “gena”, che vuol dire guancia. Non in tutte le lingue derivate dal latino è andata così, tant’è che in francese ginocchio si dice genou, che si pronuncia proprio “genù”. La parola ginocchio, dunque, non ha niente a che spartire con le altre parole italiane che contengono “gin”, come ginecologo o androgino, perché queste non derivano dal latino, ma dal greco, in cui gynè vuol dire donna. Ma proprio perché deriva dal latino, ginocchio al plurale finisce in “a”, come succede a dito, grido, osso e a tante altre parole che in latino sono neutre. Per questo si dice “le ginocchia”, anche se per l’Accademia della Crusca va considerata corretta anche la forma “i ginocchi”. Del resto, se in Italia ci sono ben 182 famiglie Ginocchio, i Ginocchi sono 74 mentre non si trova nessun Ginocchia negli elenchi telefonici di tutto il Paese.

Un mini-scandalo
Il ginocchio è importante anche nella moda. È rimasto rigorosamente al coperto per secoli, un inno alla castità muliebre fino a quando, intorno agli anni ’20 del secolo scorso, Gabrielle Chanel detta Coco accorciò una prima volta le gonne sino al ginocchio. Nell’epoca del Charleston l’abito femminile, un tubino corto e dritto, giocherà con un “ti vedo-non ti vedo” del ginocchio grazie a frange e perline. Poi, nel difficile dopoguerra, tornerà rigorosamente coperto, finché nel 1964 Mary Quant creerà la minigonna, scandalizzando il mondo. Nei maschi invece il ginocchio restava scoperto per tutta l’infanzia: pantaloni corti e calzettoni anche d’inverno, fino al giorno della prima comunione, quando si indossavano i primi pantaloni lunghi. La scelta aveva motivazioni economiche: con bambini che si buttano per terra, lottano e vanno in bicicletta, il pantalone lungo era a particolare rischio sulle ginocchia, mentre quello corto durava di più. Almeno fino all’arrivo della resistente tela da jeans, quindi, meglio sbucciarsi un ginocchio che strappare il pantalone.

Noia… alle ginocchia
E la lavandaia, che c’entra? Il famoso ginocchio della lavandaia, o ginocchio del prete, è un danno da prolungato inginocchiamento, una malattia professionale, insomma. In sostanza è un’infiammazioni a livello della rotula che provoca un versamento di liquidi all’interno dell’articolazione. In questo caso si tratta di acqua nel ginocchio, mentre il famoso “latte alle ginocchia” è solo un modo di dire, che significa che qualcuno si sta annoiando mortalmente. Secondo alcuni linguisti, l’espressione sarebbe molto antica e deriverebbe dall’immagine del seno che si allunga, per la noia, fino al ginocchio. Invece sull’origine dell’espressione “le ginocchia mi fanno Giacomo-Giacomo” ci sono più ipotesi: potrebbe derivare da “ciac ciac”, cioè dal suono di due gambe stanche dopo un lungo cammino. Oppure potrebbe essere san Giacomo (Santiago) di Compostela (in Spagna), da cui i pellegrini si recano in pellegrinaggio sin dal Medioevo, percorrendo l’Europa a piedi.

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Sport fatelo, ma con giudizio. Parte 2

Ecco la seconda parte del post sullo sport. La prima parte la trovate QUA.

Scarpe instabili
Chi pensa che maratone, jogging e footing non siano cambiati perché non dipendono dall’attrezzatura si sbaglia. I piedi non calzano più le familiari scarpe “da ginnastica”. Le moderne scarpe “da running” sono strumenti di alta tecnologia: super imbottite, super molleggiate, con inclusioni d’aria. E c’è una bella differenza anche tra un sentiero di campagna e un tapis roulant molleggiato da palestra. Insomma, con queste premesse le lesioni caratteristiche, distorsioni e lesioni tendinee al piede, alla caviglia, al ginocchio e allo stinco dovrebbero essere scomparse. Ma c’è chi sostiene il contrario. Steven Robbins, esperto in biomeccanica e medicina dello sport a Montreal (Canada), è convinto che alcune attrezzature facciano aumentare le lesioni. «Certe scarpe imbottite possono causare una perdita di stabilità sulle superfici morbide» spiega. «Per compensarla, l’atleta tende ad atterrare più pesantemente, a gamba tesa, mentre normalmente, per assorbire l’impatto col terreno, atterrerebbe a gamba piegata». Insomma anche correre può far male. E non solo alle ginocchia. C’è da ricordare che il rischio per le coronarie è 56 volte più alto se si corre senza allenamento e che l’età media di morte improvvisa nel corso di sforzi eccessivi è scesa da 60 a 47 anni.

Subacquei a rischio
Anche ai sub della domenica la tecnologia consente oggi di scendere a profondità un tempo inavvicinabili; ma questo aumenta anche il rischio di embolia. Fra i fattori predisponenti, i ricercatori dell’Università tedesca di Heidelberg hanno segnalato, sul British medical journal, una correlazione tra le lesioni cerebrali di 87 sub e la presenza di una particolare e diffusa malformazione cardiaca, l’incompleta chiusura del dotto di Botallo, che favorisce la formazione di bolle di azoto nel sangue. Ne è portatore un sub su 4, e basta un esame diagnostico per individuarla.

Pizzicorio in sella
E la bicicletta? È uno degli sport più consigliati dai medici. Non sottopone le articolazioni a sforzi eccessivi, fa bene al cuore, si può fare a qualsiasi età. Tutto bene dunque? No, neppure le bici è immune da rischi. Per chi esagera (o magari ha già problemi nella zona che poggia sul sellino), le conseguenze possono essere serie. Al Policlinico di Trondheim (Norvegia) i neurofisiologi hanno notato sintomi di parestesia (disturbi come pizzicorio, insensibilità ecc.) che suggerivano la compressione di nervi nell’area del sellino. Su 160 ciclisti intervistati che avevano partecipato a un tour norvegese che si svolge ogni anno su un percorso di 540 km, 33 avevano sintomi di anestesia al pene, che in uno su tre è durata più di una settimana; 10 sono diventati temporaneamente impotenti, e in 4 l’impotenza è durata 8 mesi. A questi rischi si aggiungono quelli ambientali. Se l’attività sportiva si svolge in ambiente inquinato, meglio evitare. L’anno scorso, a gennaio, la rivista scientifica Lancet ha pubblicato uno studio condotto da Rob McConnell della Keck School of Medicine dell’University of Southern California a Los Angeles. Studiando 3.500 bambini per 5 anni ne ha identificati ben 265 al primo attacco d’asma: quelli che facevano 3 o più sport all’aperto, in ambiente con alta concentrazione di ozono, avevano il triplo delle probabilità di sviluppare asma rispetto ai bambini che non facevano attività sportiva.

Meglio farlo tutti i giorni
«Prima che si mettano a fare sport è meglio che i non atleti si sottopongano a una visita attitudinale per scoprire quali sono i loro limiti, con prove da sforzo per scoprire quanto il loro corpo e la loro testa possono sopportare» precisa Danilo Tagliabue, ortopedico e traumatologo degli Ospedali riuniti di Bergamo e vice presidente della federazione medico sportiva italiana. Poi ci vuole solo costanza. «E allenamento. Deve essere una goccia quotidiana che incide sul proprio corpo, non una cascata una volta la settimana che può solo fare annegare e non incide» aggiunge Rodolfo Tavana, medico dello sport. «Lo sport fa bene solo se praticato con regolarità, tutti i giorni. Se pretendiamo di improvvisarci sportivi la domenica, allora lo sport può davvero fare male». Il ritmo ideale è 3 allenamenti la settimana di 30-60 minuti l’uno, puntando sugli sport di resistenza: nuoto, bicicletta,camminata a passo veloce. Lo sport, se ben praticato rinforza il cuore, le ossa, le articolazioni, riduce i dolori vertebrali, mantiene costanti le secrezioni ormonali, consente di resistere meglio allo stress e agli sbalzi di umore.

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Sport fatelo, ma con giudizio. Parte 1

Giovanni Milesi di San Pellegrino Terme (Bg) aveva 25 anni e aveva appena finito un allenamento di pallavolo. All’improvviso, è crollato al suolo ed è morto: infarto. Si era sentito male anche il mese prima, sempre dopo un allenamento, ma esami di laboratorio e controlli non avevano rivelato nulla di anomalo.
Allenamento troppo impegnativo? Non necessariamente: a volte basta la classica partitella scapoli-ammogliati. Come è successo a Massimiliano Guarino, un trentenne fiorentino, che si è accasciato mentre giocava a calcetto con gli amici sulla spiaggia della Giannella a sud di Grosseto. Poi ci sono tutti gli altri infortuni, per fortuna molto meno gravi ma in continuo aumento: distorsioni, rotture dei legamenti, strappi muscolari, ernie… Al punto che qualcuno comincia a chiedersi se lo sport fa davvero bene.

Meglio la vita sedentaria? No, rispondono gli esperti: fare sport continua a essere il modo migliore per stare bene e prevenire molte malattie . Ma c’è modo e modo di farlo. Non bisogna mai sforzarsi oltre i propri limiti. E bisogna scegliere con attenzione lo sport più adatto alla propria struttura fisica

Pancetta e ginocchia
Purtroppo i casi di persone che in nome dello sport corrono qualche rischio sono sempre più frequenti: ci sono bambini che si ammalano di asma perché fanno sport in città con troppo ozono nell’aria; joggers attempati che crollano nel tentativo di bruciare in un solo giorno la pancetta accumulata in mesi di colazioni di lavoro. Tennisti dalla chioma argentea che si cimentano in singolari all’ultima palla sotto il sole del pomeriggio agostano. E poi ginocchia rovinate dal calcio, spalle disarticolate dagli strappi in parete, disturbi ai coccigi di ciclisti: tutti sportivi della domenica. Marco Giustini, del laboratorio di epidemiologia e biostatistica dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma, stima che a livello nazionale i ricoveri per trauma “da sport”al cranio e al midollo spinale da sport siano circa 1.600 ogni anno; che i ricoveri per incidente sportivo siano circa 14 mila (25 casi ogni 100 mila abitanti) e che gli infortuni dovuti all’attività sportiva siano circa 115- 120 mila. Dati che non comprendono i decessi senza ricovero. Per esempio i casi di morte improvvisa da sforzo per attività sportive, circa 1.000-1.500 l’anno in Francia. E neppure le lesioni da usura.

Correre sulle cartilagini
Piedi piatti (punta verso l’esterno), scoliosi, ginocchia valghe (verso l’interno) o vare (verso l’esterno), se sollecitate da una pratica sportiva inadatta, come la corsa, sono condizioni che predispongono all’artrosi. Per chi ha questi problemi sarebbe meglio fare altri sport, come nuoto o ciclismo. La signora sovrappeso e con ginocchio valgo che fa jogging nella speranza di dimagrire, non sa che tutte le volte che poggia il piede, scarica tutto il peso della sua cellulite solo su una parte del sottile strato di cartilagine che fa da ammortizzatore fra i due capi articolari delle ossa al ginocchio. Col tempo lo strato si consuma, e poi inizia a consumarsi anche l’osso e cominciano i dolori. Non a caso negli Usa la condropatia rotulea si chiama anche “ginocchio del corridore”. Gli esami diagnostici hanno dimostrato che oltre i 55 anni l’artrosi colpisce il 60-80% delle persone, dolorosamente nel 50% dei casi. Per non parlare del mal di schiena che col passare del tempo affligge chi ha la spina dorsale “fragile”, e che sconsiglia sport come equitazione, rally automobilistici, motocross e mountain-bike, ma anche jogging e sollevamento pesi. E il tennis: Stéphane Cascua, medico dello sport dell’Hôpital de la Pitié-Salpêtrière di Parigi, rivela che nei tennisti il rischio il mal di schiena e danni vertebrali si moltiplica per 3 rispetto ai sedentari, e per 10 tra i patiti della ginnastica.

Nonni culturisti
Un tempo fare movimento coincideva col detto mens sana in corpore sano, “mente sana in corpo sano”, che racchiudeva la filosofia del mondo classico, l’ideale di equilibrio tra le facoltà dell’intelletto e quelle del corpo. Se il corpo è malato, sosteneva il poeta latino Giovenale nelle Satire, anche lo spirito perde vigore. E viceversa. Ma al tempo dei Romani, fino alla prima metà di questo secolo, l’immagine dello sport era diversa da quella attuale: i genitori non si aspettavano dai figli, come succede oggi, risultati agonistici. E anche i nonni sembrano aver perso la testa: un tempo si limitavano alla partita di bocce all’ombra dei platani o alla gitarella a pedalate lente in sella a una bicicletta, oggi giocano a tennis, sciano e pedalano fino allo sfinimento o fanno culturismo. Talvolta è la tecnologia a complicare le cose. La pallina da tennis un tempo viaggiava a velocità ragionevoli: rimbalzava su campi in terra o erba, non sul velocissimo tartan; la racchetta era in legno, non in titanio; l’incordatura di budello, non di nylon. Oggi la palla fila tanto veloce che c’è chi propone di aumentarne il diametro per frenarla.

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Un attimo di relax #150

Foto, citazione e libro della settimana sono il mio modo per regalarvi un minuto di relax.

Non penso mai al futuro. Arriva così presto.” ~ Albert Einstein

Libro della settimana:

Non Sei quel che Hai

Tutto sui gruppi sanguigni. Parte 2

Ecco la seconda parte del post sui gruppi sanguigni. La prima parte la trovate QUA.

Gravidanze a rischio
È dunque evidente che il sangue Rh+ non può essere somministrato a soggetti Rh-, che lo distruggerebbero con i loro anticorpi anti-D… Ma in questo caso il problema riguarda, più che le trasfusioni, le gravidanze “miste”. Mettiamo il caso di una madre Rh- in cui si sta sviluppando un feto Rh+: durante le prime settimane di gravidanza, la donna entra in contatto con il sangue fetale (che si mescola parzialmente con il suo) e ne viene sensibilizzata. In seguito a questo contatto, la madre comincia a produrre anticorpi anti-D. Durante quella stessa gravidanza difficilmente la quantità di anticorpi anti- D (ancora esigua) prodotti dalla madre potrà arrecare danni severi al nascituro. La stessa cosa non avverrà però durante la seconda gravidanza con feto ancora Rh+. La quantità di anticorpi anti-D della madre sarà questa volta sufficiente a determinare la distruzione dei globuli rossi del feto, con conseguenze drammatiche.

Donare a se stessi…
Tutti questi problemi di compatibilità sarebbero risolti dal sangue artificiale, più volte promesso dal mondo della ricerca, ma tuttora ben lontano dall’essere disponibile. Nel frattempo si sono affermati alcuni metodi alternativi alla trasfusione da donatore, in particolare quello dell’autoemotrasfusione: come dice il nome, è lo stesso paziente che si fa donatore per le proprie esigenze di terapia trasfusionale programmata. I vantaggi? Nessun rischio di infezioni, la totale assenza di reazioni febbrili o allergiche e, in generale, migliori condizioni di decorso post-operatorio. L’autotrasfusione consente inoltre di rispettare le credenze religiose contrarie alla trasfusione di sangue da donatore.

… ma senza esagerare
L’ideale, dunque! Peccato che abbia un limite insuperabile: il sangue va usato in tempi brevi, e non si può estrarne troppo da se stessi. Un trapianto di fegato, per esempio, richiede anche 35 litri di sangue (spesso in forma di derivati)… impossibile produrne abbastanza nell’imminenza dell’intervento. Si utilizza perciò questa tecnica per interventi che richiedono al massimo un paio di litri di sangue, dall’asportazione di vene varicose alle protesi d’anca e di ginocchio, dagli interventi per correggere la scoliosi all’asportazione della prostata.

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Tutto sui gruppi sanguigni. Parte 1

Il sangue non è uguale per tutti. Anzi: lo stesso liquido che può salvare una persona, per un’altra può essere addirittura mortale. Se, per esempio, venisse trasfuso sangue di gruppo A a una persona con sangue di gruppo B, il sistema immunitario del ricevente attaccherebbe i globuli rossi estranei, scatenando una reazione chiamata “emolisi”: in pratica, uccidendoli. Questa guerra fratricida, inoltre, produrrebbe un tale shock nell’organismo da portare, nei casi estremi, alla morte del ricevente.

Un carattere ereditario
La conoscenza di questo fenomeno è piuttosto recente: risale agli esperimenti condotti all’inizio del ’900 da Karl Landsteiner, premio Nobel per la medicina nel 1930. Lo studioso di origine austriaca dimostrò che il siero (cioè la parte del sangue che non coagula) di alcuni individui è capace di “incollare” fra loro i globuli rossi prelevati da altri individui. Sulla base di questo semplice test, Landsteiner giunse a classificare il sangue umano in 4 gruppi distinti:AB, A, B, 0, i cosiddetti gruppi sanguigni. Le differenze sono ereditarie, e consistono in precise caratteristiche dei globuli rossi, identificabili come antigeni a causa della loro reazione con anticorpi specifici. In parole povere: non sono altro che proteine incastonate nella membrana dei globuli rossi. Un soggetto AB ha sulla membrana dei propri globuli rossi due proteine, chiamate per convenzione A e B, e non ha ovviamente nel proprio plasma alcun anticorpo né contro A né contro B. Gli anticorpi sono infatti molecole prodotte dal sistema immunitario per contrastare uno specifico invasore: ogni anticorpo combatte e distrugge uno specifico “antigene” (che può essere un batterio, una proteina eccetera). E se un soggetto avesse anticorpi contro le proteine presenti sui suoi globuli rossi, non potrebbe sopravvivere: infatti l’organismo distruggerebbe i suoi stessi globuli rossi. I soggetti A, invece, hanno sulla membrana dei propri globuli rossi la proteina A… e nel proprio plasma anticorpi contro la proteina B (non anti-A altrimenti distruggerebbe i propri globuli rossi). Allo stesso modo, un soggetto B presenterà sulla membrana dei propri globuli rossi la proteina B e nel plasma anticorpi anti-A. Diversamente da tutti gli altri, un soggetto O non avrà né la proteina A né la proteina B sui propri globuli rossi, mentre nel plasma avrà sia anticorpi anti-A sia anticorpi anti-B.

Donatori e Riceventi
Queste differenti situazioni fanno del soggetto AB un ricevente universale: può essere cioè trasfuso con qualunque tipo di sangue. Non avendo infatti nel proprio plasma alcun tipo di anticorpo, non reagirà contro i globuli rossi trasfusi, di qualunque tipo essi siano. Al contrario, il soggetto 0 viene considerato donatore universale. Non avendo sui propri globuli rossi alcuna proteina, una volta trasfusi questi non verranno distrutti dagli anticorpi del ricevente, di qualunque tipo essi siano. Attenzione, però: quando si trasfonde sangue di tipo 0 in un soggetto di tipo diverso, si trasfondono anche gli anticorpi anti-A ed anti-B del donatore… che attaccheranno e distruggeranno i globuli rossi del ricevente. Questi anticorpi sono però pochissimi rispetto al numero dei globuli rossi del soggetto ricevente e la reazione che il donatore provocherà in quest’ultimo sarà trascurabile. Quello che quindi deve essere tenuto in considerazione è solo la reazione del sistema immunitario del ricevente, che in caso di incompatibilità può avere un danno, più che un vantaggio, dal sangue ricevuto.

Il misterioso fattore RH
Dunque il sangue degli esseri umani può essere soltanto di 4 tipi? No, in realtà esistono altri sistemi di proteine che permettono ulteriori classificazioni: per esempio i sistemi Rh, MNSs e P. Tra questi, il più significativo è il sistema Rh, identificato per la prima volta in una scimmia, il macaco Rhesus (da cui deriva la sigla Rh). Si tratta di un sistema costituito da 13 proteine, incastonate (come avviene per A e B) nella membrana dei globuli rossi. Tutti gli esseri umani sono forniti di questo gruppo di proteine, dunque non dovrebbe esserci alcun problema… tuttavia una di queste proteine (quella denominata D) non è sempre presente. È questo il motivo per cui alcuni gruppi sanguigni sono denominati Rh+ e altri Rh-… i primi hanno il complesso Rh completo, gli altri hanno soltanto 12 proteine e sono privi della D .Fortunatamente, questa mancanza riguarda soltanto il 15 per cento della popolazione umana.

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Un attimo di relax #149

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Abbiamo un debole per i capi di Stato che dicono quello che pensano. Solo vorremmo che ogni tanto pensassero a quello che dicono.” ~ Indro Montanelli

Libro della settimana:

ALLENAMENTO MENTALE. Per Senior

La voglia di mangiare. Parte 2

Ecco la seconda parte del post sulla voglia di mangiare. La prima parte la trovate QUA.

Che dieta: niente cibo, niente sesso
Le diete, dunque. Oggi c’è un’ attenzione per il corpo superiore rispetto al passato. E questo, naturalmente, si riflette anche sull’alimentazione. Tanto più che non si mangia più per semplice bisogno di nutrimento, ma per il piacere di farlo. Ma se è vero che seguire una dieta può essere anche psicologicamente rassicurante (è sempre rassicurante osservare una regola), è anche vero che non bisogna farlo in giovane età. Forzare i bambini, indirizzarli verso un alimento piuttosto che un altro è addirittura pericoloso. Se la madre non rispetta i gusti alimentari del bambino gli insegna, automaticamente, che bisogna sempre assecondare le aspettative degli altri. Così da piccoli si finisce per mangiare ciò che non piace, e da grandi si finirà per nascondere la propria vera natura, per corrispondere ai canoni sociali. C’è di più: se i genitori non tengono conto dei gusti del bambino gli impediscono, in un certo modo, di scoprire la propria natura, di esercitare il senso del piacere che nasce con la scoperta delle infinite varietà del cibo. E questo sarà un trauma che si porterà dietro per sempre.
Fra cibo e sesso, poi, il rapporto è chiarissimo. Cibo e amore entrano insieme nella nostra vita. E’ un legame antico e primitivo, che affonda le sue radici in una questione molto semplice: la sopravvivenza dell’umanità. Se non si mangia si muore, e se non si fa sesso non ci si riproduce. Con la civiltà si è passati dal dovere di nutrirsi e di accoppiarsi, al piacere di fare entrambe le cose. E di fatto l’organizzazione sociale è avvenuta grazie alla regolamentazione e al controllo del cibo e del sesso. Ancora oggi le espressioni d’affetto fra amanti hanno chiari riferimenti al cibo (“ti mangerei”, “sei dolce come il miele”, e così via…), e tutti i sessuologi sono d’accordo nel mettere in evidenza il legame fra la predisposizione al cibo e quella verso il sesso. Chi è goloso apprezza tutto ciò che dà piacere, e dunque anche il sesso. Chi divora velocemente ciò che ha nel piatto in genere si comporta nello stesso modo nell’intimità, mentre chi non ha mai appetito è probabilmente anche inibito sessualmente . Tanto che secondo i sessuologi (dati del 1994) agli italiani piace molto fare l’amore in cucina (è al secondo posto della classifica, preceduta dalla camera da letto).

Mangiare per lui, mangiare per lei
Comunque siano determinati, i gusti alimentari seguono sempre regole ormai ben definite. Esistono per esempio cibi “maschili”, dal sapore forte e simbolicamente legati al concetto di aggressività (come la carne rossa, il salame, i peperoncini), e altri tipicamente “femminili” (insalata, pesce, frutta). In parte, queste differenze sono dovute alla tradizione: nella cultura contadina che ci ha accompagnati dall’alba dell’umanità fino agli inizi del Novecento, gli uomini hanno sempre avuto bisogno di cibi proteici come la carne, mentre le donne si accontentavano di alimenti poveri. Esistono, però, anche motivazioni più sottili. Da numerose ricerche risulta per esempio che, per il sesso maschile, sbucciare la frutta è imbarazzante (ci si sente “goffi come bambini”) e, visto che gli uomini mangiano bocconi più grandi rispetto alle donne, si sentono a disagio di fronte al pesce, un alimento che richiede piccoli morsi, e con la parte anteriore della bocca, per evitare di ingoiare inavvertitamente qualche spina.

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La voglia di mangiare. Parte 1

Qual è il primo atto di protesta o di ribellione, il primo ricatto affettivo nei confronti dei genitori da parte di un bambino che non sa ancora parlare? Il rifiuto del cibo. Qual è il primo atto di un emigrato giunto in un luogo straniero? Cercare un ristorante che offra i piatti della propria terra o, più semplicemente, coltivare un’erba aromatica sul proprio balcone (come il basilico degli italiani o la molucheia degli egiziani). Qual è il primo atto, nel gioco della seduzione di una coppia? L’invito a cena. Il rapporto con ciò che mangiamo si crea nel momento esatto della nascita.
L’uomo sperimenta il suo primo stato d’ansia dopo poche ore di vita. Il primo pianto del bambino, quello che i pediatri chiamano proprio “fame”, è il nostro primo attacco d’ansia. E la prima poppata è il nostro primo il primo calmante. Grassi e magri, ascetici e golosi, uomini e donne, giovani e vecchi, tutti abbiamo un rapporto intenso, a volte oscuro, sempre determinante con il cibo. Da tempo immemorabile tutti siamo (anche psicologicamente) ciò che mangiamo. Qualche anno fa, in Iran, è stato ritrovato lo scheletro di un uomo dell’età di Neandertal (da 100 a 70 mila anni fa) Intorno a lui c’erano i resti di alcuni vegetali utilizzati durante il rito funebre: otto piante medicinali diverse, ma usate ancora oggi in erboristeria. La conclusione degli studiosi è stata unanime: la capacità di riconoscere istintivamente gli alimenti commestibili, e addirittura quelli “curativi”, risale alla preistoria e si è trasmessa fino a oggi non soltanto per tradizione orale o scritta. Sarebbe addirittura stata impressa nella “memoria genetica” dell’uomo, che capisce, anche senza preventiva informazione, che cosa gli fa bene e che cosa gli fa male: in diverse regioni dell’Africa, i bambini mangiano fango e terra quando hanno carenza di sostanze minerali.

Il primo cibo non si scorda mai
I gusti di ciascuno di noi si delineano nella prima fase della vita. Attraverso il cibo si instaura infatti il primo legame affettivo, cioè quello con la madre. E proprio al cibo, anche quando si è adulti e autonomi nelle scelte, si continua ad attribuire una funzione consolatoria. Quali sono gli alimenti che rassicurano di più, e sono dunque più graditi? Soprattutto quelli che facevano parte della propria dieta nel primo anno di vita, e ai quali si associano per sempre le attenzioni materne. Al contrario, chi da bambino ha provato una sensazione spiacevole (per esempio ha assistito a una violenta lite fra i genitori) mentre stava assaggiando un nuovo cibo, resta condizionato negativamente. Fino al punto di rifiutare per anni quell’alimento. Ecco come nascono le fobie alimentari, cioè l’avversione per la carne, o il formaggio e così via» (Un comportamento analogo si registra, per esempio, tra i malati di tumore e sottoposti a chemioterapia: il cibo assunto prima del trattamento viene in seguito rifiutato. Perché? Inconsciamente, si ritiene che abbia provocato il malessere causato, invece, dalla terapia farmacologica).
Si tratta di una sorta di imprinting alimentare che è stato anche verificato sperimentalmente sui topi: non solo, da piccoli, mangiano più volentieri gli alimenti di cui si cibano gli adulti che provvedono alla loro nutrizione, ma in seguito preferiscono nutrirsi dei cibi dei quali si nutrivano quando erano cuccioli.

Grasso è bello (e pericoloso)
A livello generale, l’uomo d’oggi tende naturalmente al cibo “dolce e grasso”. Le papille gustative della nostra lingua distinguono quattro sapori principali: dolce, salato, acido e amaro, ma già alla nascita il bambino apprezza soprattutto i sapori dolci. Un esperimento compiuto in Germania su un gruppo di neonati che non avevano assunto alcun alimento a eccezione del latte materno ha dato risultati chiari: chi riceveva una soluzione di acqua e zucchero restava calmo e appagato, chi riceveva acqua e sale rifiutava immediatamente il biberon. Se la predilezione per il dolce è innata, quella per il “grasso” sembra acquisita nei secoli. La dieta dell’uomo preistorico era costituita solo per l’11 per cento di lipidi. All’inizio del Novecento eravamo al 14 per cento. Oggi il rapporto oscilla fra il 35 e il 40 per cento. Il grasso aumenta la “palatabilità” dei cibi, li rende più saporiti: dunque siamo spinti all’assunzione di alimenti ipercalorici anche quando non ce n’è bisogno. La contraddizione della moderna alimentazione è in fondo tutta qui: la componente lipidica rende i cibi più piacevoli, ma fa ingrassare, e dunque costringe alla dieta. Ma la dieta è rinuncia al cibo, cioè al principale elemento consolatorio dell’uomo: ciò crea nuova ansia, che porta ad assumere altro cibo, e il cerchio sembra chiudersi in un vortice di nevrosi.

Fra due giorni la seconda parte! Se ti va, nella parte destra del blog puoi cliccare sull’elefantino per iscriverti ai feed o puoi inserire la tua email per ricevere gli articoli nella tua posta elettronica!

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