Nel post precedente avevamo visto come gli scopi di un trattamento analitico possono essere quattro ed avevamo analizzato insieme il fine terapeutico. Oggi affrontiamo il secondo fine.
2. Psicoanalisi come trattamento rieducativo
Freud in Vie della terapia psicoanalitica (1918) afferma: “Non possiamo evitare di prendere in cura anche dei malati talmente sprovveduti ed incapaci di condurre una vita normale che per essi l’influsso analitico non può non combinarsi con quello pedagogico”.
Anche Groddeck sostiene che i risultati terapeutici si ottengono “insegnando” all’Es nuove modalità, meno dolorose, di autoespressione, e definisce l’analisi una “ginnastica dello spirito” attraverso la quale “si impara” a conoscersi o a modificarsi. Alexander e French (1946) parlano dell’analisi come di un processo di rieducazione emotiva, che avviene tramite esperienze correttive. Certamente i pazienti con disturbi del comportamento, di tipo perverso oppure tossicomanico, si aspettano dal trattamento una modifica del proprio comportamento, una sorta di rieducazione. Chi si sottopone a un trattamento analitico acquisisce sempre e comunque, attraverso la maggior conoscenza e consapevolezza di sé, una nuova “cultura” sul funzionamento della mente e dei sentimenti umani. Dopo l’analisi egli non è più quello di prima, è in qualche modo rinnovato, “rieducato”.
L’ideologia rieducativa comporta che l’analista sia soprattutto attento alle modalità di relazione che il paziente attua nella situazione analitica e nella realtà. L’analisi delle relazioni oggettuali è il mezzo per ottenere che queste relazioni e tutte le modalità del paziente di disporsi verso il reale diventino più mature, come è nei propositi di analisti quali Fairbairn (1958), Guntrip (1961) ecc.
Per oggi può bastare così, nei prossimi post parleremo degli atri due fini.