Tra salassi e amputazioni, viaggio nelle sale operatorie di ieri per capire quanto siamo fortunati oggi.
Ecco la seconda parte del post sugli orrori dei chirurghi. La prima parte la trovate QUA.
Il metal-detector di Bell
Ma è quanto accadde al Presidente degli Stati Uniti James Abraham Garfield a documentare meglio lo stato della chirurgia precontemporanea. Nel 1881 Garfield fu centrato da due proiettili di un attentatore, Charles Guiteau: uno dei due proiettili gli scalfì una spalla, l’altro, entrato dall’inguine, rimase conficcato in un punto imprecisato del corpo e nei giorni seguenti ben 16 tra medici e chirurghi si alternarono alla Casa Bianca per capire dove fosse finito. Ebbene, il primo di loro, Willard Bliss, introdusse un dito poi una sonda nella ferita, aprendo per così dire una “via” obbligata all’esplorazione dei colleghi i quali, continuando la ricerca, finirono per toccare con le mani il fegato dell’illustre paziente. Anche Graham Bell, già noto come inventore del telefono, fu chiamato al capezzale del Presidente. Bell si servì in quella circostanza di un primitivo metal-detector, che segnalò effettivamente un oggetto metallico: ma non era il proiettile cercato, erano le molle del materasso. Garfield morì 80 giorni dopo l’attentato per una infezione diffusa (setticemia) e al processo i difensori di Guiteau sostennero che causa della morte erano state le manovre non sterili dei medici e non i colpi dell’attentatore: il proiettile nascosto infatti fu rinvenuto durante l’autopsia vicino alla colonna vertebrale, in posizione innocua. Ma questa versione dei fatti, probabilmente esatta, non fu creduta da giudici e giurati e l’attentatore morì impiccato.
Mani sporche
In realtà la chirurgia dell’epoca doveva fare i conti soprattutto con tre questioni che trovarono soluzione soltanto in pieno Ottocento: il problema dell’emorragia, quello della sepsi (cioè la prevenzione e la cura delle infezioni operatorie) e quello del dolore. Per bloccare l’emorragia fu importantissima l’invenzione delle pinze “a presa dentata” o di Cocker, lo strumento che durante gli interventi permette di chiudere arterie o vene, anche di grosse dimensioni, tagliate dal chirurgo: ma siamo già nella seconda metà dell’Ottocento. Per quanto riguarda la sepsi, l’episodio più significativo è quello di Ignaz Semmelweis, assistente nella clinica ostetrica di Vienna. Verso il 1850 Semmelweis scoprì che nel reparto universitario di ostetricia la febbre puerperale, una infezione che colpiva le donne subito dopo il parto, aveva una frequenza quattro volte superiore rispetto a quella che si registrava nel reparto non universitario. «La ragione è semplice», spiegò il giovane chirurgo dopo aver investigato: «tra un parto e l’altro gli universitari, per motivi di studio inerenti al loro ruolo, fanno le autopsie e sono le loro mani infette a contagiare le donne». Per anni Semmelweis non venne creduto ma quando gli ostetrici dell’università viennese presero l’abitudine di disinfettarsi le mani con acqua e cloro prima di entrare in sala parto, i casi di febbre puerperale, fino a quel momento ritenuta conseguenza inevitabile del parto, diminuirono drasticamente.
C’è un arto nella segatura
Ancora più tormentata è la storia dell’anestesia. Per secoli il dolore provocato dalle manovre chirurgiche fu incontrollabile. I metodi di anestesia più seguiti erano una spugnetta imbevuta di giusquiamo, un’erba medicinale nota fin dall’antichità, e continue irrigazioni di acqua gelida sulle parti operate: in ambedue i casi i risultati erano insignificanti. I chirurghi capaci di far sentire meno dolore erano per questo motivo ricercatissimi: all’inizio dell’Ottocento Giorgio IV di Inghilterra nominò baronetto un chirurgo per il solo fatto che gli aveva tolto una cisti sebacea dalla testa senza procurargli grandi sofferenze. La prima grossa operazione in cui venne utilizzata l’anestesia generale (fu impiegata in quell’occasione una mascherina imbevuta di etere) venne compiuta solo nel 1846, a Boston. Il chirurgo si chiamava George Haywood ma il merito principale è del suo assistente, Andrew Morton, l’inventore dell’inalatore di etere. Anche in questo caso si tratta di un intervento storico, benché questa volta non sia da ricordare tanto l’atrocità fisica dell’operazione, quanto la brutalità del comportamento del chirurgo. «Come si sente?», domandò il professor Haywood a operazione finita. «Bene», rispose la paziente, Alice Mohan, una ragazza di 21 anni: «Credo di aver dormito». «Allora guardi», disse il chirurgo con un sorriso soddisfatto: e fece vedere alla sventurata, estraendola dalla segatura dov’era finita, la gamba amputata. Questo è l’atto di nascita della chirurgia più moderna.