Un po’ di storia non guasta mai soprattutto se capire cosa è successo nel passato può far cambiare coò che non va nel presente.
Il modo di alimentarsi degli italiani è molto cambiato, negli ultimi trent’anni. Ci sono stati mutamenti qualitativi ma anche quantitativi. Ecco le principali tendenze, che pongono a confronto i primi anni Cinquanta, e gli ultimi anni Ottanta
1. Mangiamo di più
In termini assoluti la quantità di cibo è aumentata. Frumento: siamo passati da 160 chili annui a testa a 163. Ortaggi: da 106 chili a 207. Frutta: da 60 chili a 118. Zucchero: da 15 chili a 28. Carne: da 19 chili a 78. Pesce: da 7 chili a quasi 13. Latte: da 49 litri a 84. Uova: da 7 a 12. Solo per pochi alimenti c’è stata una leggera diminuzione (frutta secca, riso, legumi secchi). Insomma non ci sono stati spostamenti nel gusto, ma un aumento in quantità.
2. Mangiamo diversamente
Rispetto al passato c’è stato un sensibile aumento dei cibi prodotti industrialmente: non si passa cioè quasi più dalla produzione al consumo, ma c’è sempre il momento della trasformazione. La dimensione internazionale dei mercati fa inoltre sì che sulle tavole giungano sempre più alimenti non locali, prodotti molto lontano. Manca cioè sempre più il “cibo tipico”, a vantaggio di quello esotico. Ciò a volte provoca perfino la nascita di inedite tendenze produttive: in pochi anni, per esempio, visto il successo del kiwi, l’Italia è diventata il secondo produttore mondiale di questo frutto, d’origine ben lontana.
3. Mangiamo fuori casa
La trasformazione del nostro Paese da rurale in industriale ha provocato una nuova organizzazione dei pasti, sia in casa che fuori. In casa si ricorre sempre più a cibi conservati ( sviluppo di frigorifero e freezer) e preconfezionati (forno a microonde). Fuori casa il ritmo di lavoro ha portato allo spostamento da mezzogiorno alla sera del pasto principale, e alla valorizzazione degli snack. Sono anche evidenti le differenze fra le città burocratizzate (le capitali amministrative), dove i ritmi alimentari sono condizionati dal ritmo del lavoro in ufficio (orario unico, con chiusura alle 14), e le città industriali.