
Ne consumiamo troppi e spesso sono superflui: perché li pretendiamo dal medico; il medico si affida all’informazione dei produttori;e i produttori fanno più marketing che ricerca (vd post “Le fasi di sviluppo di un farmaco“)…
Si chiama disturbo da carenza di motivazione (Mo- DeD, Motivational deficiency disorder). Secondo il prof. Leth Argos, dell’University of Newcastle, Australia, affligge il 20% della popolazione; chi perde anche la voglia di respirare ne muore. Ma una piccola azienda di biotecnologie, di cui Argos è consulente, sta sperimentando Indolebant, molecola efficace e ben tollerata.T anto che le associazioni di pazienti fanno pressione per accelerarne sperimentazione e autorizzazione.Tutto falso: il MoDeD non esiste e il professor Leth Argos neppure; il Bmj, autorevole rivista per medici, riportava la notizia il 1° aprile: era un pesce, ma non molto diverso dalla realtà. Negli ultimi anni le malattie si sono moltiplicate: dalla disforia (irritabilità) mestruale alla sonnolenza diurna eccessiva, dalla disfunzione sessuale femminile al disturbo sociale ansiogeno, alla sindrome da deficit di attenzione. E spesso la nascita di ogni malattia coincideva stranamente con la scoperta, casuale, di una nuova indicazione per un vecchio farmaco. (per approfondimenti vedi anche il post Parola Di Marco Mamone Capria )
Malattie strategiche
Di pari passo è cambiata la strategia delle aziende, che oggi puntano su due diverse categorie di farmaci: una, difficile da scoprire, rimborsabile, considerata innovativa, che in genere ottiene dallo Stato un prezzo di vendita più elevato. L’altra facilmente smerciabile non rimborsabile, che concerne lo stile di vita e non una malattia, spesso “inventata” sfruttando l’effetto collaterale di un farmaco della prima categoria. Il mercato per tutti i farmaci viene poi creato con un efficace marketing ribattezzato disease mongering, cioè vendita delle malattie, che usa 3 strategie: 1. allargare il mercato di farmaci esistenti; 2. medicalizzare normali processi dell’esistenza; 3. trasformare i fattori di rischio in malattie.
Gioco al ribasso
L’ipertensione è un esempio della prima strategia. Finora si considerava iperteso chi aveva una pressione superiore a 140/90. Poi l’American Society of Hypertension riscrisse la definizione inventando la pre-ipertensione che inizierebbe da 120/80: è sano solo chi ha una pressione così bassa da non stare in piedi. Il New York Times svelò però che Merck, Novartis e Sankyo, tutte produttrici di farmaci anti- per-tensivi, avevano “unto” gli ingranaggi: dei 7 scopritori della nuova patologia, 6 ricevevano denaro delle aziende interessate e il 7° ne era azionista. E l’American Society of Hypertension aveva intascato 75 mila dollari più altri 700 mila per un ciclo di lezioni di aggiornamento per medici tenuto…in un ristorante. Il ritocco dei numeri ampliava il mercato degli anti-ipertensivi di 6 milioni di pazienti americani. Ma il trucco è ormai una regola; sono stati ritoccati i tassi di colesterolo, glicemia, peso corporeo, e persino la definizione delle malattie mentali del Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), bibbia dei criteri diagnostici: chi ha stilato gli aggiornamenti era pagato dai produttori.
Calvizie: una malattia?
Altra strategia è medicalizzare le naturali fasi dell’esistenza. È normale che dopo i 40 anni i maschi comincino a perdere i capelli, come è normale che le donne in menopausa soffrano un po’ di insonnia e abbiano le vampate,e pure che dopo una certa età maschi e femmine abbiano meno interesse per il sesso. Nel 1997, 19 urologi riuniti a congresso a spese delle aziende hanno inventato la disfunzione sessuale femminile definendone i sintomi: ridotto desiderio, rapporti dolorosi, incapacità di raggiungere l’orgasmo. Secondo Ed Laumann, sociologo dell’University of Chicago, a libro paga della Pfizer, la patologia affliggerebbe il 43% delle donne: ohibò, 1 su 2 non ha più orgasmi? La Fda statunitense non ha autorizzato cerotti e creme al testosterone per “curare” questa malattia perché il testosterone è sospetto cancerogeno; li ha autorizzati l’Emea, ente europeo, e sono già nelle nostre farmacie.
Confini sfumati
Il colesterolo è invece un esempio di come si può trasformare un fattore di rischio in malattia. Negli anni ’90 gli esperti dei National Institutes of Health americani avevanoformulato la definizione di colesterolo “alto”sul quale intervenire con i farmaci. In base a quella definizione e allo stile di vita Usa, c’erano 13 milioni di americani da trattare. Nel 2001 un altro comitato di esperti, 1/3 dei quali finanziati dai produttori di statine (molecole che riducono il colesterolo) ha ritoccato il tasso aumentando il mercato a 36 milioni di pazienti. Altro ritocco nel 2004: il comitato questa volta era di 9 esperti, 8 dei quali pagati dall’industria delle statine (avrebbero dovuto dichiararlo, ma non l’hanno fatto). Risultato: gli americani da trattare lievitano a 40 milioni. Ma ormai è la norma: uno studio ha calcolato che il 90% degli estensori delle direttive sull’uso dei farmaci lavora per le aziende produttrici.
Consigli interessati
Di fronte a queste situazioni i medici che prescrivono farmaci dovrebbero usare spirito critico, ma le facoltà di medicina non spiegano le strategie di marketing delle aziende. E l’aggiornamento dei camici bianchi, in Italia, è affidato ai 30 mila informatori farmaceutici che ogni giorno visitano 8-10 medici. In pratica, 300 mila contatti al giorno non per invitare il medico a essere attento e critico, ma per far aumentare le vendite» . Da più di 10 anni ci sono anche i corsi di educazione continua in medicina, obbligatori: i medici devono frequentarli per accumulare il punteggio che consente loro di continuare a esercitare. Gran parte di questi corsi è finanziata dall’industria sanitaria: farmaci, dispositivi, attrezzature, test di laboratorio o servizi. Chi organizza un corso per ottenerne l’accredito dal ministero della Salute deve rispondere via Internet ad alcune domande. Una chiede: in questo corso esistono conflitti di interesse? Se si risponde sì, il corso non viene accreditato. Quindi tutti rispondono no. Anche perché nessuno ha precisato cosa si intende per conflitto di interesse!
Acqua fresca
Forse è un caso: la legge italiana rende poco trasparente l’attività di pressione dell’industria, ma sono noti i contributi dati all’elezione di George W. Bush nel 2000: 80 milioni di $ venivano dall’industria farmaceutica e fra i primi 30 finanziatori del partito repubblicano ci sono ben 5 colossi farmaceutici. Con queste premesse non stupisce che l’Emea, l’ente regolatore europeo dei farmaci, non dipenda dalla Sanità, ma dalla direzione generale dell’Industria. «Come se il farmaco fosse un bene di consumo qualsiasi. Se non bastasse, il bilancio dell’Emea è fatto al 70% dai versamenti dell’industria: la valutazione del prodotto è direttamente pagata dall’industria stessa. Se diminuissero i farmaci presentati all’Emea, diminuirebbe il suo bilancio. E questa è un’arma di ricatto. Poi c’è la valutazione della qualità dell’efficacia e della sicurezza, ma invece di confrontare il farmaco nuovo con un altro già presente sul mercato per capire se funziona meglio, lo si confronta spesso con il placebo, l’acqua fresca. E così può essere approvato un farmaco meno sicuro e meno attivo di quelli già esistenti. Inoltre sono tenuti segreti i dati farmacologici, tossicologici e gli studi clinici in base ai quali è stato approvato il farmaco. E tutta la documentazione è fornita dall’azienda che ha interesse a far approvare il farmaco, mentre almeno uno studio sui malati dovrebbe essere fatto da un organismo indipendente.
Rischi mortali
Né funziona la farmacovigilanza dopo l’approvazione. Finora l’Emea non ha mai segnalato casi di tossicità dei farmaci e i ritiri sono stati decisi dall’industria. La lista è lunga: prima la terapia sostitutiva della menopausa dava il cancro al seno. Poi una statina che faceva morire di infarto. Infine il Vioxx, l’antinfiammatorio della Merck ritirato nel 2004: aveva causato da 88 mila a 140 mila infarti solo negli Usa, e l’azienda lo sapeva dal 2001. I farmaci veramente innovativi sono pochi perché l’industria spende più in marketing che in ricerca: nel 1999 i 12 maggiori gruppi Usa del settore hanno impegnato il 12,4% del loro fatturato in ricerca e sviluppo contro il 34,3% in marketing e costi amministrativi. Con ottimi risultati: nei primi 9 mesi del 2006, le dosi prescritte in Italia sono aumentate del 7,2% rispetto allo stesso periodo del 2005.
