Trentasei quiz in quaranta minuti. Per mettersi in tasca la prestigiosa tessera del Mensa, il club che raccoglie i cervelloni di tutto il mondo, bisogna superare la prova con un punteggio minimo di 148. Tenete presente che l’intelligenza media nel mondo è fissata a quota 100: chi prende 148 entra in un gruppo molto ristretto, che comprende appena il 2 per cento della popolazione umana, se poi prende 170, entra nell’1 per cento, e così via. C’è perfino chi, e sono pochissimi, arriva a superare quota 200. In Italia i membri del Mensa (che ha sede centrale a Montecatini) sono appena trecento, ma in tutto il mondo sono più di 100 mila.

Beethoven? Respinto
«Ma non bisogna prendersela, in fondo il test misura solo un aspetto parziale dell’intelligenza e cioè le attitudini logico- spaziali. Quelle, per intenderci, in cui primeggiava Einstein. Se avesse provato Beethoven, per esempio, di certo sarebbe stato bocciato, eppure ha scritto la Nona sinfonia. Non è stato dunque un genio?. Il fatto è che l’intelligenza è un sistema complesso, in cui rientrano memoria, immaginazione, creatività, capacità di sintetizzare, e molto altro. Per ora non c’è un mezzo per misurare tutto questo. Né quindi per individuare un genio.

L’identikit
Alle stesse conclusioni è arrivato Howard Gardner, psicologo dell’università di Harvard: «L’intelligenza è composta da una serie di abilità intellettuali distinte. Ciascuna serve a risolvere problemi e nello stesso tempo a crearne di nuovi, per preparare il terreno a nuova conoscenza». Le intelligenze secondo Gardner sono sette: linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale (necessaria agli architetti), corporeo-cinestetica (quella dei danzatori), personale e interpersonale. Ciascuno di noi le possiede tutte ma in misura di versa e l’intelligenza globale è il risultato della loro cooperazione. «Il genio invece è colui che sviluppa in maniera straordinaria una di queste intelligenze, anche a discapito delle altre», dice Gardner. Per provare la sua tesi ha condotto una ricerca su sette geni riconosciuti, tra loro contemporanei: Eliot, Stravinskij, Einstein, Picasso, Martha Graham, Freud e Gandhi. Ognuno rappresenta l’eccellenza di una delle sette intelligenze individuate.

La regola dei dieci anni
In primo luogo Gardner ripercorre la vita dei sette, trovando parecchie analogie. Poi mette a confronto le sue intuizioni con i risultati di numerose altre ricerche psicologiche sul genio. E tira le somme: il genio non è tale fin dalla nascita. Occorrono almeno dieci anni di pratica perché emerga in tutta la sua importanza: Picasso, per esempio, soltanto con “Les demoiselles d’Avignon” (1907) infrange tutte le regole pittoriche precedenti e si impone come genio creativo. Picasso, come Mozart, era stato un bambino prodigio, ma in effetti dipingeva come Raffaello, cioè nel solco della più classica tradizione. Anche Mozart compose le prime opere notevoli solo dopo dieci anni di lavoro. In tutt’altro settore, Martha Graham: iniziò a ballare addirittura dopo i venti anni e la prima esibizione la fece a 30. E dopo dieci anni di lavoro Einstein elaborò la teoria della relatività, Eliot scrisse La terra desolata, Gandhi enunciò il satyagraha (pratica della non violenza). Con la “regola dei dieci anni” Gardner intende ovviamente controbattere la tesi di chi, come il Nobel John Eccles, sostiene che l’intelligenza abbia per il 60 per cento base genetica. Secondo gli innatisti, appunto, geni si nasce e non c’è alcun modo per contrastare il proprio destino biologico. James Watson, lo scienziato che ha scoperto il Dna, si spinge ancora più in là. Riferisce che da studi sui topi è emerso che le cellule genetiche del maschio nella formazione del cervello contribuiscono a formare l’ippocampo, mentre quelle della femmina “partecipano” anche alla corteccia. «L’intelligenza, conclude Watson, non solo è ereditaria, ma proviene dalla donna». E conclude con una spiegazione di tipo evoluzionistico: il maschio impiega più energia nel trasmettere i caratteri della forza, per procurare il cibo. Allora i geni dovrebbero ringraziare la loro mamma? Certamente l’intelligenza ha basi biologiche, perché è l’espressione dell’attività nervosa, ma non esiste al momento nessuna prova concreta che l’intelligenza sia ereditaria. Oltretutto, l’ereditarietà presuppone lo studio di ogni singolo gene: troppi per poterli individuare. E comunque non è ancora stato fatto. La verità, come sempre, sta nel mezzo. L’ intelligenza è basata sulle funzioni delle cellule nervose, i neuroni, e sui collegamenti tra l’uno e l’altro, detti sinapsi. Non c’è dubbio che più sono le sinapsi, più si è favoriti, ma il numero delle sinapsi dipende in parte da fattori specifici, come gli ormoni, e in parte dalle esperienze che facciamo. È come per il computer: c’è la macchina, ma se non si inserisce nulla in memoria, non parte». Il cervello, cioè, è come un muscolo: più si utilizza, più funziona.

Speranze per tutti
Naturalmente più l’esercizio avviene in tenera età e più è efficace. Il cervello di un bambino infatti possiede lo stesso numero di neuroni di quello di un adulto. Sono le sinapsi che gli mancano: nei primi mesi di vita queste aumentano bruscamente, raggiungono il massimo tra uno e due anni (quando sono il 50 per cento in più della densità media dell’adulto), declinano tra due e sedici anni e poi rimangono costanti fino ai 70 anni. E i conti tornano: lo psicologo americano Colin Berry, che ha studiato le famiglie degli scienziati premiati con il Nobel, ha scoperto che la maggioranza di essi sono figli di professionisti e sono cresciuti in una grande città, cioè hanno avuto stimoli culturali molto intensi durante la prima infanzia. Tra i premi Nobel, tra l’altro, sono più numerosi gli ebrei che i protestanti e i cattolici. Questo, secondo Berry, perché la religione ebraica prescrive ai genitori di istruire i figli fin dalla più tenera età. Un analogo studio, fatto da Gardner, conferma sostanzialmente i risultati di Berry. In più, aggiunge che il genio solitamente vive anche una condizione di marginalità: Einstein e Freud erano ebrei in Paesi di lingua tedesca, la Graham una donna, Gandhi, Eliot e Picasso vivevano in Paesi di lingua diversa dalla loro.

Come amico, un disastro
Ma gli studi psicologici hanno stabilito anche che per essere un genio non basta una super-intelligenza. Sono altrettanto importanti il carattere, la determinazione, l’ambizione. Per questo l’Institute of Personality Assessment dell’università della California ha studiato i ritratti psicologici di un centinaio di uomini creativi di ogni epoca. Ed ecco il risultato: il genio ha fiducia in sé, prontezza nel cogliere le situazioni, dedizione ossessiva al lavoro, vita sociale e hobby praticamente inesistenti, originalità. Caratteristiche dai risvolti spesso negativi: la fiducia in sé per esempio si trasforma in narcisismo, una scarsa vita sociale genera egoismo e indifferenza verso gli altri (Eliot e Einstein), se non vero e proprio sadismo (Picasso). Nello stesso tempo però il genio ha bisogno degli altri, perché l’accettazione da parte della società è l’unico criterio affidabile che ha per misurare la sua creatività. Non esiste quindi genio senza la vanità del successo e dell’esibizione di sé, cioè un misto di egocentrismo e desiderio di conquistare il mondo. E forse a questo si riferiva Baudelaire: «Il genio è la capacità di ristabilire i contatti con la propria infanzia».

firma.png