Appendice, Tonsille, peli, coda… ma a cosa servivano davvero?
Una folta pelliccia per affrontare il freddo, la coda per appendersi agli alberi e anche per manifestare, agitandola, le emozioni. Piedi palmati per nuotare meglio, una doppia fila di denti come gli squali, un pezzo di intestino per digerire la cellulosa dei vegetali, una mandibola capace di aprirsi come quella dei rettili… Il nostro corpo porta scritta in sé, nascosta ma ancora visibile, la storia della sua evoluzione.
La sfortuna dei calvi
Dalle origini dell’uomo, alcuni organi si sono sviluppati infatti in maniera impressionante – pensate solo al cervello – per rispondere meglio alle nostre esigenze. Altri hanno cambiato funzione in modo così radicale da diventare irriconoscibili. Altri ancora, infine, si sono come spenti e hanno perso la maggior parte delle loro ragioni d’essere, riducendosi a miseri resti. Dall’appendice alle tonsille, dal dito mignolo del piede al timo, a che cosa servivano in origine questi pezzi “inutili”? E a che servono oggi? La domanda è legittima, perché si vive perfettamente senza appendice, senza capelli e adenoidi (si sopravvive bene perfino senza la milza). Ma si è scoperto che quando, a opera del chirurgo o dell’età, si rinuncia a qualcuno di questi frammenti marginali, la perdita non è del tutto indolore. Prendiamo il caso più banale, i capelli. Sono un residuo della pelliccia primordiale: a mano a mano che l’uomo imparò a costruirsi ripari e ad accendere fuochi, i peli diventarono quasi inutili per sopravvivere. Se un umanoide glabro rischiava di non passare l’inverno (e quindi di non generare figli simili a lui), a un nostro contemporaneo basta accendere il riscaldamento. Eppure sulla testa manteniamo ancora (quasi tutti) una folta chioma. Come mai? Perché la capigliatura, a differenza della pelliccia, ci serve anche oggi: le cellule del cervello sono particolarmente sensibili al calore e devono essere protette dagli sbalzi di temperatura. Così, benché perdiamo 30 mila capelli all’anno, altrettanti ne facciamo ricrescere. Tra le parti scomparse dal nostro corpo, di cui non rimangono che minime vestigia, c’è invece la coda. Sotto il coccige quattro o cinque vertebre sacrali, atrofizzate, che in molti individui sono fuse tra loro, costituiscono l’ultima memoria di questo organo che il nostro corpo ha perduto. Tracce di un passato arboricolo.
Difetto genetico
Un altro resto curioso, ma stavolta di un lontanissimo progenitore acquatico della nostra specie, è il lembo di pelle che unisce le dita dei piedi in alcuni neonati. È un leggero difetto genetico che sembra riportare alle tracce più sepolte del nostro Dna. Rievoca esseri dai piedi palmati, come piccole pinne. Sempre in tema di antenati acquatici, qualcosa può essere rintracciato anche in bocca: diversi individui hanno, dietro un incisivo, un piccolo spuntone d’osso, come un secondo dente, appena accennato. È un errore del loro organismo, ma secondo alcune teorie potrebbe essere l’ultimo retaggio di una seconda fila di denti, come quella degli squali. Un’ipotesi suggestiva, ma poco dimostrabile e che si scontra con altre, opposte. Secondo queste ultime teorie l’uomo originariamente non era carnivoro: lo dimostrerebbe la scarsa importanza che hanno i nostri canini, rispetto a quelli presenti nelle fauci dei carnivori veri e propri, come i felini.
Il taglio degli unghioni
E le unghie? Per gli antropologi sarebbero il residuo di artigli decisamente più sviluppati. Il professor Melchiorre Masali, antropologo a Torino, descrive così questa evoluzione: «Con il passare del tempo la funzione aggressiva degli artigli veniva meno, mentre diventava sempre più importante riuscire a migliorare la manualità. Così a poco a poco si sono ritratti, trasformandosi in unghie, quei piccoli rivestimenti rigidi che permettono di padroneggiare gli oggetti con una precisione decisamente migliore di quella concessa da una mano dotata di lunghi artigli».
Ci sono intere zone del nostro organismo che derivano da tessuti di origine molto antica. Le tonsille o l’appendice, per esempio, sono agglomerati di tessuto linfatico, veri baluardi del sistema difensivo dell’organismo nella cui “memoria” sono contenute informazioni trasmesse da tempi remoti. L’appendice in noi è lunga una decina di centimetri, ma in alcuni erbivori è molto più grande e contiene batteri capaci di scomporre le pareti delle cellule vegetali. Quanto alle adenoidi, alle tonsille e al timo svolgono i loro compiti di difesa immunitaria nei primi anni della nostra vita, poi cadono in un letargo dal quale si svegliano soltanto per provocare disturbi, che richiedono l’opera del chirurgo. Oggi però, rispetto al passato, si guarda a questi pezzi con più rispetto: si possono togliere senza alcun problema, è vero, ma se si conservano è meglio, per garantire al nostro corpo qualche difesa in più. Anche della milza, organo linfoide pesante 150-180 grammi e posto nella parte alta dell’addome, si può fare a meno. Serve a difendere l’organismo (produce globuli bianchi, elimina i globuli rossi esauriti e ne raccoglie il ferro), ma malattie come la tubercolosi, la malaria o la leucemia la fanno aumentare di volume e obbligano a eliminarla.
Dalla testa alla coda
Come forse era ovvio aspettarsi, però, l’organo che più di tutti è cambiato nei millenni è il cervello. Mentre originariamente non era molto dissimile da quello degli altri animali, in cui le funzioni principali vengono svolte da formazioni primitive, dedicate alla trasmissione degli impulsi più istintivi come la fame o il sesso, nell’uomo si è venuto sviluppando uno strato superiore, la corteccia cerebrale, che il resto del mondo vivente ci invidierebbe, se ne avesse la capacità. È proprio grazie alla corteccia, infatti, che possiamo permetterci di avere una gestualità fine, di tenere a bada i nostri istinti, di modulare frasi e parole con il linguaggio. Di esprimere emozioni senza bisogno di agitare la coda.