Psiche e Soma

Ricette per una vita migliore!

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La manutenzione della colonna vertebrale.

La manutenzione si fa così: molto moto, mangiare sano. E occhio agli zaini pesanti

Per rimanere efficiente, la colonna vertebrale deve lavorare, cioè muoversi. Quando è sottoposta a uno sforzo prolungato, infatti, anche se non intenso, si generano correnti elettriche che stimolano la creazione di nuovo tessuto osseo. La scarsità di moto, o addirittura l’immobilismo, può provocare invece osteoporosi. Vale a dire fragilità delle ossa. Se si è costretti a rimanere immobili per più giorni, l’organismo preleva il calcio dalle ossa per utilizzarlo dove è più necessario, come accade durante le malattie prolungate.
Quali altre regole occorre osservare per mantenerla in forma?

Recupero limitato.
Il lavoro fa bene alla colonna vertebrale ma, in certi casi, può anche danneggiarla. Succede quando la si sottopone a sforzi prolungati per lungo tempo. I dischi intervertebrali si accorciano di giorno per la perdita di liquido che poi recuperano di notte, allungandosi, ma se il recupero non è sufficiente, i dischi non riacquistano le dimensioni normali, le vertebre si avvicinano l’una all’altra, si riducono le possibilità di movimento reciproco e la conseguenza è l’artrosi.

Attenti al calcio.
Il latte e i suoi derivati sono la migliore fonte naturale per rifornire di calcio l’organismo, indispensabile soprattutto nelle prime fasi della vita e nelle donne. Per queste ultime, infatti, il rischio di osteoporosi dopo la menopausa dipende dalla quantità di calcio assorbita tra i 25 e i 30 anni di età.
Le verdure inoltre sono una preziosa fonte di calcio, seconda per importanza soltanto ai latticini e, a differenza di questi, sono totalmente “sicuri”. Tra i vegetali più ricchi di calcio ricordiamo gli agretti, le verdure a foglia verde (cicoria catalogna, cime di rapa, rucola e lattuga), i broccoli, il sedano da costa, il finocchio, i cavoli ed i porri. La salvia, con i suoi 600 mg di calcio per 100 grammi, rappresenta uno dei vegetali più ricchi di questo elemento; come tale, risulta un aromatizzante particolarmente prezioso per aumentare l’apporto quotidiano di calcio, specie se utilizzato al posto del sale. L’eccesso di sodio, infatti, tende ad impoverire le ossa di calcio, predisponendole allo sviluppo dell’osteoporosi. Anche il caffè, gli alcolici, il fumo, una dieta decisamente iperproteica e il ridotto consumo di verdure, sono fattori potenzialmente responsabili di carenze calciche.
L’importanza delle verdure ricche di calcio nella dieta è particolarmente rilevante nell’alimentazione delle persone intolleranti al lattosio. Questi individui, considerata la carenza di lattasi, sono infatti costretti ad allontanare in maniera più o meno drastica gli alimenti ricchi di lattosio dalla propria dieta. Di conseguenza, privandosi di latte e latticini (anche se lo yogurt e i formaggi a pasta dura sono generalmente ben tollerati), nel lungo periodo è possibile sviluppare carenze di calcio. Analogo discorso per i vegani.

Peso eccessivo.
La colonna vertebrale non dovrebbe essere costretta a portare un peso superiore alle sue capacità: né pesi eccessivi, né corpi troppo appesantiti. Recenti indagini mediche condotte in diverse città hanno invece dimostrato che, sia pure con percentuali variabili, gran parte dei bambini italiani è in eccesso di peso. Questo è dovuto a un’alimentazione scorretta, sia per il tipo di alimenti (abbondanza di cibi ad alto contenuto di calorie e poca verdura e frutta), sia per il modo disordinato di alimentarsi. La conseguenza è che il peso supera i limiti normali e la schiena deve fare sforzi maggiori per “reggerlo”. Altrettanto dannosi, soprattutto per i bambini, possono essere i cosiddetti “carichi scolastici”: zaini e cartelle. Soprattutto fino all’età della scuola media, cioè fino a quando la spina dorsale è ancora debole, è meglio limitare al massimo il loro peso. Ma bisogna anche fare attenzione al modo con cui il peso viene sistemato sulla schiena. Lo zaino è preferibile perché permette di distribuire il peso su entrambe le spalle, ma occorre che all’interno libri e quaderni siano sistemati in modo da non “tirare” di più da un lato. Le cartelle o le borse che si portano appese a una sola spalla sono meno indicate, perché tendono a gravare su un solo lato del corpo, rischiando di provocare asimmetrie nella colonna vertebrale.

Mezzi di difesa.
Il metodo più sicuro per prevenire i danni alla colonna è di svolgere una corretta e regolare attività fisica. Gli sport più adatti sono la ginnastica, il nuoto e la pallacanestro, perché permettono di sviluppare in modo regolare tutti i fasci muscolari della schiena. Ma, in generale, tutti gli sport hanno effetti positivi, esclusi quelli asimmetrici, come il tennis, che tendono a esasperare il lavoro di metà del corpo, lasciando inattiva l’altra. In questi casi, per evitare il rischio di sbilanciamenti nello sviluppo muscolare, è bene far precedere allo sport un periodo di ginnastica per mantenere in attività tutti i fasci muscolari. La colonna vertebrale, infine, si difende anche a letto. E’ meglio non dormire sul ventre, perché il collo, e quindi le vertebre cervicali, sono obbligati a stare in posizione innaturale. E’ bene anche che il materasso sia abbastanza rigido.

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Leggete attentamente le avvertenze


Delle circa 30 mila malattie oggi conosciute, solo un terzo è curabile con farmaci. Non solo: anche quando le medicine funzionano, prevalentemente queste agiscono più sul sintomo che sulle cause. Il che significa, in pratica, che non guariscono, solo alleviano la malattia. Malgrado questo in Italia si usano ogni anno 1 miliardo e 450 milioni di confezioni di farmaci. Spesso inutili. E, più frequentemente di quanto si possa immaginare, presi in modo sbagliato. Secondo uno studio dell’Istituto Mario Negri su alcuni dei farmaci più diffusi, almeno nel 50 per cento dei casi la prescrizione fatta dal medico non è seriamente giustificata. Molte sono poi le persone che prendono farmaci con troppa leggerezza, senza consultare i medici, senza leggere il foglietto delle «istruzioni» peraltro quasi sempre incomprensibili o interrompendone l’assunzione troppo presto, senza tenere conto che combinare più farmaci, o semplicemente accoppiarli a una dieta sbagliata, può portare a effetti controproducenti. Come limitare questi errori e orientarsi meglio tra pillole, fiale e compresse? Ecco qualche informazione, alcuni consigli e le risposte alle perplessità più comuni.

1) I farmaci son sicuri?
Sì. I farmaci in vendita sono abbastanza sicuri perché hanno superato una verifica che dura molti anni e consiste in quattro fasi. La prima sperimentazione viene fatta su volontari sani a dosi molto basse. Poi si passa alla fase 2, su piccoli gruppi di pazienti, e alla fase 3, su gruppi numerosi di mala-ti, per capire qual è il rapporto tra benefici e rischi. Stabilita l’efficacia di un farmaco, inizia la sua vendita e, con essa, la fase 4, cioè la sorveglianza «post-marketing». In Italia si calcola che 35 milioni di cittadini prendano ogni anno farmaci, e vengono segnalate 3.000 reazioni avverse l’anno.

2) Cosa è meglio dire o chiedere al medico che ci prepara la prescrizione?
Il medico di famiglia dovrebbe sapere di noi vita e miracoli. Ma se ci rivolgiamo a lui raramente, può sapere troppo poco. E’ quindi importante informare chi ci cura se abbiamo o abbiamo avuto: -malattie o disfunzioni croniche di fegato o renali (chi ne è stato vittima metabolizza più lentamente i farmaci); -l’ulcera peptica (meglio che non si prendano gli antinfiammatori non steroidei, o l’aspirina); -crisi epilettiche o problemi psichiatrici (ci sono farmaci che possono favorirli); -eczemi (è uno degli effetti collaterali più comuni); -e infine se è in corso una gravidanza: sostanze a prima vista innocue, come la vitamina A, possono causare malformazioni persino se sospese prima del concepimento.
3) I farmaci si prendono prima o dopo i pasti?
E’ meglio attenersi alle disposizioni del medico. Il cibo riduce la velocità di assorbimento di farmaci come penicilline, tetracicline, eritromicina. Ma ci sono anche farmaci il cui assorbimento è aumentato dal cibo: come la nitrofurantoina, il labetalolo, l’idralazina.
4) Cosa si deve fare se si dimentica una dose?
Dipende dal farmaco. Nel caso si tratti di un contraccettivo orale, la pillola successiva va presa il più presto possibile, tenendo conto che per 48 non ci sarà copertura e quindi va usato un altro anticoncezionale. In alcuni casi il «bugiardino », come viene chiamato il foglietto di istruzioni allegato al farmaco, dà indicazioni. Se si dimenticano altri farmaci, come l’insulina o gli anti-epilettici, è invece necessario consultare il medico.
5) Esistono farmaci incompatibili tra di loro?
Si. Per esempio, si è scoperto che la pillola anticoncezionale a volte fa cilecca se si prende contemporaneamente ad antibiotici. E l’eparina, un anticoagulante utilizzato per la trombosi venosa profonda, preso insieme all’aspirina fa aumentare il rischio di emorragia. Anche i farmaci che deprimono il sistema nervoso centrale come gli ipnotici, gli stupefacenti, gli antistaminici e gli alcolici, se combinati tra loro moltiplicano l’effetto sedativo, che diventa così pericoloso e potenzialmente mortale. Bisogna quindi sempre dire al medico che fa la prescrizione quali farmaci si stanno assumendo. E controllare il bugiardino alla voce “Interazioni”.
6) Cosa deve esserci nella farmacia di casa?
Ecco alcuni prodotti base per le esigenze più comuni. Ferite: un disinfettante, meglio a base di iodio (betadine) o l’acqua ossigenata. E’ consigliabile non usare i cicatrizzanti: potrebbero favorire la formazione di cicatrici su ferite che devono ancora spurgare. Febbre: Paracetamolo, un antifebbrile per i bambini. Analgesici: un prodotto da banco a base di ibuprofene. Acidità di stomaco: un anti-acido se è episodica. Se invece persiste , bisogna andare dal medico.
7) Che cosa sono i farmaci da banco?
Quando entrano in commercio, i farmaci vengono divisi in due categorie: farmaci da banco, che non hanno bisogno di ricetta, e farmaci che richiedono la prescrizione. A loro volta, i farmaci con ricetta sono divisi in tre fasce. In fascia A, gratuiti, oggi ci sono 500 principi attivi (le molecole efficaci dal punto di vista farmacologico) divisi in 3.300 confezioni in base alla caratteristica (per adulto o pediatriche, tipo di somministrazione, quantità contenute) e in 1.374 specialità (i diversi nomi commerciali). In fascia B, cioè al 50 per cento a carico del paziente, ci sono 150 principi attivi, 490 confezioni e 342 specialità. Mentre in fascia C, cioè a totale carico del paziente, ci sono 980 principi attivi, 3.300 specialità, 7.200 confezioni. Questa suddivisione è oggi in fase di ridefinizione da parte del governo.

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Che cosa sono le cellule staminali?

Sono cellule allo stadio iniziale dello sviluppo cellulare. Vengono prelevate soprattutto da embrioni.
L’embrione, infatti, è formato inizialmente da poche cellule uguali che solo in seguito si specializzano e danno vita ai diversi tessuti dell’organismo. Le cellule staminali, dunque, sono in grado di produrre qualsiasi tessuto se stimolate in modo opportuno.Anche l’organismo adulto in realtà continua a produrre cellule staminali e in particolare ciò avviene nel midollo spinale. Se per rigenerare un tessuto malato vengono usate queste cellule, che provengono dallo stesso organismo, e non le staminali di un embrione, si superano i rischi di rigetto degli attuali trapianti. Per esempio, cellule staminali prelevate dal midollo possono essere trasformate in cellule cardiache e trapiantate nel cuore dello stesso paziente per riparare i danni causati da un infarto. Per la ricerca scientifica, gli embrioni prodotti nei tentativi di fecondazione artificiale sono una fonte preziosa di cellule staminali. L’uso di embrioni a tale scopo è però limitato da opposizioni sul piano bioetico.

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Che cos’è la morte in culla? Come prevenirla?

La “morte in culla” detta anche Sids (dall’inglese Sudden infant death syndrome, Sindrome della morte infantile improvvisa) è la morte di un neonato apparentemente sano che si manifesta senza sintomi e cause evidenti. Questo evento può accadere senza preavviso nel primo anno di vita del bambino. Ha un’incidenza molto bassa, un caso ogni 1.500 neonati.

Pur non essendo ancora chiari i motivi che portano alla morte in culla, numerosi studi scientifici hanno permesso di stilare una lista di comportamenti che possono servire come prevenzione.
Su tutti l’indicazione di fare dormire il neonato sempre a pancia in su. Inoltre si consiglia alle mamme di non fumare soprattutto in gravidanza né successivamente in presenza del piccolo, e di preferire l’allattamento al seno. Sembra utile anche fare dormire il bambino nella sua culla sopra un materasso rigido, senza cuscino, senza piumini ingombranti o vestiti che ne aumentino troppo il calore corporeo e in un ambiente che possibilmente non superi i 20 °C.

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Sport: l’età per cominciare? Zero anni!

Non c’è mai stata tanta offerta di sport per i bambini. Eppure mai come oggi ne fanno così poco.
Una recente ricerca ha dimostrato che solo il 20 per cento tra i ragazzi e le ragazze tra gli 11 e i 15 anni svolge uno sport in modo regolare. Mentre l’obesità è sempre più diffusa: colpisce dal 5 al 6 per cento dei ragazzi e dal 6 al 7 per cento delle ragazze.

Cominciare presto
Sull’opportunità di cominciare presto a muovere i muscoli non ci sono dubbi. Tanto prima il bambino viene avvicinato, sia pure gradualmente, allo sforzo muscolare, tanto più aumenterà la sua abitudine alla fatica fisica e psicologica. Il piacere per un certo tipo di stanchezza muscolare, la sensazione di padroneggiare il proprio corpo si imparano proprio da piccoli.

Quale sport?
Innanzitutto non solo uno sport, ma più sport e un bimbo di cinque, sei, otto anni dovrebbe praticarrne il più possibile. Portare un bambino solo in piscina, oppure solo nel campo di atletica è un errore. E’ noioso perfezionare fino all’esasperazione lo stesso movimento.

Una vasta scelta
Si può scegliere a seconda dell’età del bambino. Ci sono sport che per essere praticati bene richiedono un’età più matura: la vela, la canoa, il windsurf, la mountain-bike sui sentieri di montagna, il tiro con l’arco o l’atletica leggera presuppongono una coscienza di sé e dei propri limiti, oppure una coordinazione muscolare tali da essere meglio affrontabili alle soglie dell’adolescenza.

Per piccolissimi
Già a partire dalla primissima infanzia si può invece iscrivere un bimbo a un corso di nuoto, fargli fare massaggi o esercizi di ginnastica guidata, o semplicemente regalargli un triciclo. Verso i 2-3 anni si può portarlo a fare passeggiate nei boschi o perfino su qualche facile sentiero di montagna. Può anche cominciare a giocare a palla con un adulto, dare le prime pedalate in bicicletta e, come sempre, nuotare. Lezioni di calcio e di minibasket possono essere affrontate a 5-6 anni, mentre per pallavolo, pattini a rotelle, tennis è meglio attendere i 7-8 anni.

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Ecco i danni provocati nel tempo da una prolungata esposizione solare.

Quando andate via dalla spiaggia purtroppo ciò che vi portate a casa non è solo l’abbronzatura. Un’eccessiva esposizione al sole è infatti responsabile della maggior parte dei problemi cutanei che si possono verificare con il passare degli anni, poiché si accumulano lentamente nel tempo e iniziano in tenera età. Mentre alcuni effetti sono puramente cosmetici, altri, come il cancro della pelle, sono più gravi.

Sapete come il sole danneggia la pelle? Vediamo insieme i risultati delle radiazioni ultraviolette in modo da poter riconoscere i segni del troppo sole

Pigmentazione irregolare
Per proteggersi dagli effetti dannosi del sole, la pelle aumenta la sua produzione di melanociti. Queste cellule producono un pigmento marrone scuro chiamato melanina. La melanina rende la pelle più scura o abbronzata. In alcuni casi, il sole provoca però un aumento irregolare produzione di melanina o nel numero dei melanociti, che produce causa una colorazione irregolare della pelle. Il sole può anche causare un allungamento permanente (dilatazione) dei vasi sanguigni di piccole dimensioni, dando alla vostra pelle un aspetto rossastro a chiazze.

Lentiggini solari sulla parte anteriore del corpo
Le lentiggini solari, dette anche macchie di età, sono macchie piatte e di colore scuro (di solito marrone, nero o grigio) legate ad un aumento della pigmentazione. Esse variano in dimensioni e di solito appaiono sul viso, mani, braccia e parte superiore della schiena, ovvero le zone più esposte al sole. Anche se comune nelle persone anziane, le lentiggini solari si possono trovare anche sulla pelle dei giovani adulti e dei bambini che passano troppo tempo al sole.

Lentiggini solari sulla parte posteriore del corpo
Le lentiggini solari tendono a diventare più numerose con l’esposizione al sole e con l’avanzare dell’età. A volte si sviluppano in gran numero, come si può vedere sulla parte superiore della schiena di quest’uomo. Sono diverse dalle classiche lentiggini che invece sono di colore rosso o marrone chiaro, sono più piccole di dimensioni, tendono a svilupparsi in tenera età, e a schiarirsi di solito nei mesi invernali.

Lentigo labiale
Una lesione marrone scuro, chiamata lentigo labiale, si può sviluppare sulle labbra dopo esposizioni ripetute al sole. Nella maggior parte dei casi, il lentigo labiale è un singolo segno che si forma sul labbro inferiore, spesso più esposto alla luce solare.

Elastosi solare
Le radiazioni ultraviolette rompono il tessuto connettivo della pelle – le fibre di collagene ed elastina – che si trovano nello strato più profondo della pelle (derma). Senza il tessuto connettivo di sostegno, la pelle perde la sua forza e flessibilità. Questa condizione, nota come elastosi solare, è caratterizzata da pieghe verticali (A), rughe profonde, e da pelle flaccida e cascante.

Poichilodermia
Aree irregolari di pigmentazione bruno-rossastra caratterizzano la poichilodermia. Questa condizione, che si verifica più spesso nelle donne di mezza età e negli anziani, è probabilmente causata da esposizione al sole cronica in combinazione con alcune sostanze chimiche presenti nei prodotti cosmetici o profumi. Molto spesso, la poichilodermia appare sul lato del collo o sulle guance.

Cheratosi attiniche
Conosciuto anche come cheratosi solare, le cheratosi attiniche appaiono come macchie ruvide, squamose e sollevate che variano di colore dal color carne al rosa scuro o marrone. Si trovano comunemente sul viso, orecchie, braccia e mani di persone di carnagione chiara la cui pelle è stata danneggiata dal sole. Se non trattata, la cheratosi attinica può progredire ad un tipo di cancro della pelle conosciuto come carcinoma a cellule squamose.

Lentigo maligna
La lentigo maligna è un tipo di melanoma che si sviluppa nella aree maggiormente sottoposte all’esposizione solare, come viso, mani o gambe. La lentigo maligna inizia come una macchia scura piatta che si scurisce lentamente e si allarga. E’ consigliabile consultare un dermatologo se si nota un ispessimento o un cambiamento fastidioso della pelle, un cambiamento dell’aspetto o del colore di un neo o nel caso una ferita non guarisca normalmente.

 

Il Respiro: un tranquillante naturale.


Esistono moltissime tecniche per favorire il relax attraverso la respirazione. Quelle di origine orientale affondano le radici in una tradizione antichissima, nella quale il respiro non è solo un atto fisiologico: nello yoga indiano per esempio gli esercizi respiratori (Pranayama) servono a entrare in contatto con l’infinito. Vediamone alcuni.

Autoipnosi.
Il più semplice consiste nel seguire con il pensiero il percorso che fa l’aria entrando dentro di noi, mentre va a gonfiare il torace, poi arriva al diaframma, gonfia la pancia e poi torna su, per uscire. Nell’ascoltare il proprio respiro si può cercare a poco a poco di rallentarlo: si tratta di un principio di autoipnosi (che tuttavia non ha alcun effetto se non quello di rilassare) ed è ideale da eseguire la sera prima di addormentarsi.

Per gli ipertesi.
Il Bahya Kumbhaka consiste nel fare inspirazioni profonde seguite da espirazione. Poi, a polmoni vuoti, trattenere il fiato più a lungo possibile (senza esagerare), quindi inspirare. Si continua per una decina di minuti. Questo esercizio scioglie la tensione ed è indicato per gli ipertesi. Si respira con il naso: nello yoga, per mantenere le narici pulite, si fanno lavaggi frequenti con acqua salata.

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Respiriamo.

C’è un campo da tennis dentro ognuno di noi. O, se preferite, un appartamento. Stiamo parlando dei nostri polmoni, che, se venissero distesi, coprirebbero una superficie di circa 70 metri quadrati. Proprio come un campo da tennis (per essere precisi, la porzione di un solo giocatore). Questo spazio, compresso in due sacchetti di circa un chilo e mezzo l’uno, ci serve per fare dodici respiri al minuto, cioè 17 mila al giorno, e introdurre così 10 mila litri d’aria nel nostro organismo. Se così non fosse, non avremmo l’ossigeno per nutrire sangue, organi, cervello rifiuti dell’attività cellulare: si calcola che solo il 3 per cento dei rifiuti del corpo venga espulso con le feci, il 7 con l’urina, il 20 attraverso la pelle. E addirittura il 70 per cento attraverso l’espirazione (in forma di anidride carbonica). Eppure tutto avviene senza che ce ne accorgiamo. Respirare è un atto involontario, comandato dai centri pontini, che sono nella parte bassa del cervello, tra testa e collo. In pratica ci sono neuroni che attivano il riflesso della respirazione e altri che lo spengono, come interruttori che funzionano automaticamente. Nello stesso tempo, però, attraverso altri centri nervosi, quelli corticali, noi possiamo intervenire sulla respirazione e quindi decidere di fare un respiro più profondo o di trattenere il fiato.

Attenti ai radicali
Respirare è automatico, ma questo non significa che tutti lo facciano al meglio. È noto per esempio che bisogna respirare aria pulita, non fumare, fare moto per mantenere in esercizio tutto l’apparato respiratorio. I dati dicono che oggi il 10 per cento degli italiani soffre di una malattia respiratoria. E l’aumento registrato in questo tipo di malattie è in gran parte dovuto alla diffusione del fumo e all’inquinamento. Pochi sanno che, per vivere più a lungo, bisogna anche cercare di consumare meno ossigeno. Lo ha rivelato una ricerca Usa, condotta su animali: si è scoperto che riducendo l’apporto di cibo giornaliero diminuisce il consumo di ossigeno destinato all’attività cellulare e si vive più a lungo.

Come vivere di più
La spiegazione? Nel mitocondrio (una parte della cellula), durante la trasformazione delle sostanze in energia per l’organismo, avviene la formazione di radicali liberi dell’ossigeno. I radicali liberi sono tossici per la cellula e vengono eliminati grazie agli antiossidanti (vitamina C, A, selenio, betacarotene). Ma più il consumo di ossigeno è alto, più sono i radicali liberi e la cellula fatica a combatterli. Ecco allora alcuni consigli per limitare il consumo di ossigeno: fare pasti piccoli e frequenti, perché richiedono meno ossigeno per la digestione. Ridurre i carboidrati, perché il loro metabolismo aumenta la produzione di anidride carbonica e poi, per eliminarla, bisogna aumentare il ritmo respiratorio. Evitare, in generale, le calorie in eccesso. La natura, il cui scopo è mantenere l’equilibrio tra vegetali (che producono ossigeno) e animali (che lo consumano), non esita a eliminare chi eccede nella domanda di ossigeno. Troppo ossigeno dunque fa male. Ma anche troppo poco. Un’insufficienza respiratoria compromette, oltre all’attività dei vari organi, anche quella del cervello, diversi studi scientifici hanno dimostrato che un cervello poco ossigenato può subire danni come la perdita della memoria. Lo psicologo Andrew Scholey, dell’università di Newcastle, va oltre: sostiene che inalare piccole quantità di ossigeno puro per pochi secondi aumenta la capacità di ricordare quello che avverrà nelle ore successive.

Paura e voglia: l’asma
Ma i legami tra respiro e psiche non sono solo di natura chimica. Il respiro per esempio è uno strumento di comunicazione. Il solo fatto che per parlare si faccia uscire ed entrare aria nella bocca significa che, attraverso il respiro, comunichiamo con il mondo. Quando non si vuole comunicare con gli altri si smette di respirare. E arriva l’asma, ed è significativo che siano molti bambini a soffrirne: respirare è un atto di autonomia, perché è la prima cosa che facciamo venendo al mondo. Per il bambino respirare significa vivere, ma anche vivere da solo: dal punto di vista della psicosomatica, l’asma rappresenta il desiderio e insieme la paura di essere indipendenti.

Tosse e sospiri
Qualche volta il fiato esce in tosse, starnuti, sospiri. Sono impellenze fisiologiche, che però possono nascondere anche stati d’animo. Con i colpi di tosse si può esprimere un disagio, con il sospiro, che è un atto espiratorio lungo e forzato che serve (come lo sbadiglio) a liberarsi dall’anidride carbonica in eccesso, ci si libera dall’aria pesante che ci sta intorno. Infine lo starnuto: è la reazione a una situazione irritante. Non a caso chi è allergico starnutisce in primavera, quando la natura si rinnova e abituarsi al suo cambiamento costa fatica, in termini fisici e psicologici. Anche il ritmo del respiro è una spia delle emozioni che proviamo. Ci sono persone che respirano in modo sottile, quasi impercettibile. Così pensano inconsciamente di anestetizzarsi: respirare poco per loro equivale a sentire poco, un respiro sussultorio, cioè con l’espirazione non libera ma trattenuta, rivela invece tristezza. Poi c’è il respiro controllato, bloccato al torace: anziché scendere come dovrebbe, fino alla pancia, gonfia solo il petto e torna indietro. È un respiro normale nei momenti di concentrazione, ma se diventa costante, rivela un eccessivo stato di vigilanza.

Il ritmo giusto
Ma com’è il respiro delle persone serene? Uguale a quello degli animali: c’è un’inspirazione lenta, che fa muovere anche il diaframma, poi una pausa brevissima, e poi un’espirazione più rapida, ma non forzata. Quando si riesce a farla eseguire ai pazienti stressati, subito si nota che diminuisce la frequenza cardiaca, le mani si asciugano dal sudore, le tensioni muscolari si allentano. Segni evidenti di benessere.

Meglio aprire la bocca
In alcuni casi, però, bisogna accettare che il respiro abbia sbalzi e variazioni, perché sono naturali. Quando si fa sport, per esempio: il respiro accelera, e cercare di prender aria solo con il naso è sbagliato. Secondo le nuove tendenze della medicina sportiva è meglio assecondare le naturali esigenze dell’organismo e aprire la bocca. Anche quando abbiamo paura respiriamo velocemente, quasi ansimando. L’organismo infatti si prepara all’azione assorbendo più ossigeno. Chi soffre d’ansia invece interpreta questa accelerazione come segnale di pericolo per la salute. Cerca allora di rallentare il respiro, e di fare boccate più ampie. E ottiene l’effetto contrario: agitarsi ancora di più. Quando manca l’aria a causa dell’ansia, bisogna prendere meno aria e aumentare invece l’espirazione. Respiro alterato è anche quello dei momenti di piacere. Ma nessuno si spaventa, anzi. Il respiro del piacere è ritmato e sonoro. Quasi una musica.

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2011: Medaglia d’oro alla Puglia per l’innovazione nel campo della Sanità.

Ogni anno l’ Osservatorio Aziende Sanitarie Italiane OASI del centro di ricerca CERGAS dell’Università Bocconi, pubblica un rapporto che presenta un’analisi del sistema sanitario nazionale e regionale. Il Rapporto Annuale 2011 dedica un intero capitolo ad una nuova esperienza nel campo sanitario: il low cost.

Lo studio dell’Osservatorio OASI sul low cost in sanità è nato da alcune importanti considerazioni: valutare le potenzialità della formula low cost applicata al settore sanitario, studiare motivazioni e modalità delll’emergere del fenomeno, individuare gli elementi che ne possono favorire o ostacolare l’adozione in sanità.

Nella ricerca sono state esplorate le prime esperienze di ambulatori low cost, fra le quali spicca quella del Poliambulatorio Sociale “Nuova Città” di Capurso (Bari) in quanto l’unico ambulatorio ad essere gestito da una ONLUS senza fini di lucro.
Questo Poliambulatorio, senza investitori, sta portando avanti il progetto “Nuova Città” innovativo e socialmente utile, che sta incontrando largo responso nella cittadina e dintorni.
Questo progetto nasce sposando la filosofia del low cost etico dove si possono incontrare qualità delle prestazioni mediche, facile e veloce accesso al servizio, attenzione alle esigenze del paziente, costi contenuti.
Oltre a “Nuova Città” sono state analizzate le esperienze del Sant’Agostino di Milano, di Welfare Italia e di MD ed in tutti i casi il «basso prezzo» si accompagna a un’idea altrettanto forte di qualità del servizio.

Il fenomeno della sanità low cost è in forte espansione in questi ultimi anni ed il motivo di questo è evidenziabile nelle parole del Dr. Daniele Aprile (Direttore Sanitario del Poliambulatorio Nuova Città): «Sappiamo che ci sono molti utenti che si trovano in difficoltà poiché di fatto non sanno a chi rivolgersi in caso di necessità. Questo perché da un lato, l’offerta di servizi pubblici non riesce a soddisfare completamente la domanda, dall’altro si incontra il privato che però spesso ha costi che, in pochi possono o vogliono permettersi. Nella struttura pubblica inoltre, il tempo dedicato alla visita è ridotto e risulta spesso difficile incontrare lo stesso medico, con una inevitabile spersonalizzazione dell’importante rapporto medico-paziente. La risposta a questo grande problema è offerta oggi dai primi ambulatori low cost, capaci di porsi in una posizione intermedia fornendo un’ottima alternativa all’utente.
Da noi, infatti, si incontra un’equipe medica stabile, i tempi d’attesa sono ridotti ( massimo 7 giorni) e la tariffa è di 45 euro per tutte le visite specialistiche presenti, garantendo ad ogni visita trasparenza e centralità al paziente
».

Dello stesso avviso è L’OASI che, nelle conclusioni del rapporto afferma: “… il modello low cost non solo ha mosso i primi passi, ma sembra avere ormai assunto una sua consistenza. Un primo elemento che emerge dai casi analizzati è proprio il superamento di una fase pionieristica in cui il problema principale era capire se il modello fosse compatibile con le caratteristiche del settore — domanda la cui risposta, come detto, non era affatto scontata — per entrare nella fase in cui gli attori coinvolti sono impegnati nella messa a punto di una propria specifica formula, i cui elementi di fondo hanno, però, già dimostrato una loro validità. In altri termini, che il low cost possa avere uno spazio in sanità sembra ormai assodato, rimane da vedere come i diversi modelli saranno capaci di configurare tale spazio in termini di ampiezza e di contenuti di servizio.
È difficile predire l’ampiezza di tale ruolo, ma il tipo di innovazione di cui è portatore e lo stimolo che già da oggi, per chi lo osserva con sufficiente attenzione, può venire al resto del sistema è sufficiente a giustificarne l’esistenza.”
Link al rapporto OASI, scaricabile in PDF

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Si può guarire con una cosa qualsiasi?

Fino a pochi anni fa, una delle prescrizioni più frequenti dei medici inglesi era “Adt”. Serviva per tutto: artrosi, asma, emicrania… A patto che il malato non si accorgesse che non era un farmaco. L’Adt infatti era l’esatto opposto di un farmaco: una sostanza senza alcun effetto farmacologico, come acqua zuccherata, olio d’oliva, lattosio. La sigla Adt stava per “Any damned thing” ovvero “un accidenti qualsiasi”. Il farmacista lo sapeva e dava, a seconda di quel che aveva nel retrobottega, una pillola gialla, o uno sciroppo verde. Ma la cosa più strana era che il paziente guariva. Secondo le più recenti stime, la percentuale di efficacia dell’Adt variava dal 30% al 70%, a seconda delle malattie.

Miracoli?
Oggi i medici inglesi non usano più questa sigla, perché è ormai troppo nota, mentre una condizione indispensabile per l’efficacia dell’Adt è che il paziente creda davvero di prendere una medicina. Ma in tutto il mondo si continua, in modi diversi, a usare e prescrivere (e non solo a malati immaginari) queste sostanze inerti che vengono chiamate “placebo”. E che spesso curano meglio dei farmaci. Come mai? Incuriositi e stupiti dagli effetti “miracolosi” di questi farmaci che non sono farmaci, gli scienziati hanno studiato con molta attenzione il fenomeno. E sono oggi riusciti a scoprire i meccanismi, non solo psicologici, sui quali si basa. Hanno individuato un’enorme quantità di effetti terapeutici che possono essere favoriti da loro, scoperto la possibilità che, come i farmaci veri, diano effetti collaterali e persino accertato che fede religiosa, allegria, fantasia stimolano la guarigione utilizzando gli stessi meccanismi biochimici del placebo.

Non solo suggestione.
La spiegazione più ovvia è che il placebo (la parola deriva dal latino placere e significa “io piacerò”) funzioni grazie a un effetto psicologico. Chi è convinto di prendere un farmaco efficace, si lascerebbe cioè talmente suggestionare, da provare davvero effetti benefici, al di là della reale efficacia del farmaco. Il grado di suggestione (e conseguentemente di efficacia) dipenderebbe in gran parte anche dal modo in cui viene somministrato: per esempio dall’autorevolezza del medico o dalla sua capacità di comunicare al paziente fiducia nel farmaco. Ma il placebo, si è oggi scoperto, non agisce solo sulla psiche, influenza anche la biochimica del corpo.

Il legame mente-corpo.
Per gli antichi era ovvio che mente e corpo si influenzassero a vicenda: «Le passioni dell’anima sembrano essere collegate al corpo, mentre il corpo subisce modificazioni per la loro presenza», diceva Aristotele. Ma la moderna medicina occidentale, influenzata dal pensiero del filosofo francese Cartesio (che teorizzava la netta separazione tra mente e corpo) non ha mai preso in considerazione questo rapporto. Almeno fino a quando, pochi anni fa, Candace Pert, biochimico del National Institute of Mental Health di Bethesda, individuò nel cervello i meccanismi che legano psiche e corpo. In pratica una specie di serrature chimiche, chiamate recettori, nelle quali si adattano perfettamente, come chiavi, l’oppio e i suoi derivati, ma anche le endorfine, analgesici naturali prodotti dal corpo umano su “ordine” della psiche. Quando la chiave chimica giusta fa scattare la serratura, si provano sensazioni benefiche. Oggi una nuova scienza, la psiconeuroimmunologia, è impegnata a decifrare questo dialogo chimico che unisce la mente al corpo, dialogo che viene alterato dalle malattie ed è cruciale nella guarigione. «Cervello, sistema nervoso e sistema immunitario sono come tre amici che vanno a braccetto scambiandosi costantemente le informazioni più intime sul nostro conto», dice Pert. In pratica è come se, quando la psiche sa che sta arrivando un farmaco che ritiene efficace, avvertisse il corpo di prepararsi ai suoi effetti. E anzi lo costringesse ad anticiparli e a produrli, anche se il farmaco è inefficace a livello biochimico.

Serrature occupate.
A produrre gli effetti attesi, in questi casi, sono le endorfine: che stimolano il sistema immunitario contro aggressioni esterne, ne frenano gli eccessi nelle allergie, o fanno secernere gli ormoni sessuali o antiinfiammatori, le sostanze analgesiche o le molecole legate al benessere e al buon umore. La tecnologia disponibile non ci permette ancora di misurare con precisione le variazioni di produzione di queste sostanze nel tessuto cerebrale prima e dopo la somministrazione di un placebo, ma si stanno accumulando le prove indirette. I ricercatori hanno per esempio dimostrato che l’effetto analgesico di un placebo viene impedito somministrando naloxone, una molecola chimica che occupa (senza però farle “scattare” e quindi senza attivare i meccanismi di controllo del dolore) le stesse serrature del cervello che sono addette a ricevere le endorfine. In pratica quel che succede quando si somministra naloxone a una persona, è che questa sostanza occupa tutte le serrature disponibili. Le endorfine eventualmente prodotte dall’effetto placebo non possono così più farle scattare per trasmettere i loro “ordini” al corpo.

Attenti ai “nocebo”.
La suggestione vale anche per gli effetti collaterali. I pazienti trattati con placebo solitamente accusano anche i sintomi negativi attesi per i farmaci che i placebo sostituiscono: nausea, nervosismo, insonnia, costipazione. Perfino calvizie: è successo a un gruppo di pazienti oncologici colpiti da alopecia (caduta dei capelli) per un innocente placebo che credevano un chemioterapico. Si arriva addirittura all’effetto contrario, l’“effetto nocebo” (dal futuro del verbo latino nocere: “io nuocerò”). Come le aspettative positive hanno effetti benefici su psiche e corpo, così le aspettative negative hanno effetti dannosi. Ed è quasi sicuramente all’effetto nocebo che si devono i risultati scadenti di terapie in teoria efficaci, ma delle quali il paziente non è convinto, magari solo perché sono state prescritte da un medico nel quale non ha fiducia.

La prima cura è il medico.
Un ruolo importante lo hanno infatti anche le convinzioni del medico. La situazione ideale si verifica quando il medico crede nell’efficacia della terapia e comunica al paziente questa fiducia arricchita da attenzione, empatia e incoraggiamento. Una delle più evidenti prove dell’importanza del rapporto medico-paziente è uno studio del Massachusetts General Hospital di Boston: l’esito di un intervento di cardiochirurgia è molto meno favorevole nei pazienti che l’anestesista visita solo velocemente rispetto a quello dei pazienti cui dedica un approfondito colloquio. Mediamente, per questi ultimi si è riscontrata una degenza post-operatoria più breve di 2,6 giorni. Anche la religione, l’aiuto psicologico e il buonumore sono efficaci.
Le “magie” di Paracelso.
In fondo, però, tutto quanto si è scoperto sull’effetto placebo c’era già nella saggezza degli antichi. Ippocrate, Galeno, Paracelso non avevano antibiotici, e neppure analgesici. Avevano idee confuse su cuore e cervello, e non conoscevano il sistema immunitario e i virus. Eppure con tisane, estratti e intrugli, astri e un pizzico di magia, ma soprattutto tante parole, sono passati alla storia e la loro fama è immortale. Oggi la medicina dispone di un enorme armamentario tecnologico, ma ha perso la forza della parola, della suggestione, del rapporto con il paziente.

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