Psiche e Soma

Ricette per una vita migliore!

Category: memoria

La memoria del corpo. Parte 2

Ecco la seconda parte del post sulla memoria del corpo. La prima parte la trovate QUA.

Prigionieri della memoria
La griglia che si forma nella mente per effetto del consolidamento della memoria diventa una vera e propria gabbia per chi, a causa di una malattia o di un incidente, ha subìto danni nelle regioni del cervello da cui partono i comandi che ordinano ai muscoli di muoversi. Il malato è prigioniero della memoria del suo corpo» dice Carlo Perfetti, responsabile scientifico del Centro di neuroriabilitazione cognitiva Villa Miari, di Santorso (Vicenza). «Il suo cervello ritiene di potersi muovere come faceva prima».Ma non riesce più a farlo. Perfetti è in Italia il caposcuola di una nuova tecnica di riabilitazione che cerca di modificare il modo di lavorare del cervello «sfruttando la plasticità, cioè la capacità di riorganizzarsi, che gli è propria». La tecnica prevede esercizi che costringono a concentrarsi su ogni piccola parte della sequenza che porta all’esecuzione di un movimento. «Invitiamo i pazienti a compiere gesti non abituali, come toccarsi il naso, ma con il dito mignolo invece che con l’indice. Questo stimola la riorganizzazione delle aree cerebrali ». E il cervello impara a lavorare in un altro modo.

Caccia al fantasma
La plasticità è invece la croce di chi, dopo un’amputazione, continua a percepire l’arto mancante. Questa sensazione, che i medici chiamano “arto fantasma”, è dovuta al fatto che le aree del cervello responsabili delle sensazioni che provenivano da quell’arto continuano a essere innervate. Solo col tempo i nervi che trasportano sensazioni da altre parti del corpo occupano le aree cerebrali rimaste senza… lavoro. Il neuroscienziato americano Vilayanur Ramachandran racconta di un uomo che “sentiva” il braccio amputato ogni volta che rideva: le zone responsabili delle sensazioni della sua guancia ora occupavano quelle che, prima, arrivavano dal braccio. Scoperto il motivo del suo disturbo, l’uomo si disse soddisfatto. Se aveva un prurito all’arto fantasma ora sapeva che gli bastava grattarsi la guancia.

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La memoria del corpo. Parte 1

Un giorno indimenticabile? Quello in cui abbiamo imparato a camminare. Non possiamo ricordare quando e dove è successo, né quante volte eravamo caduti prima di riuscirci. Eppure il cervello non dimenticherà mai quali ordini deve impartire ai muscoli per camminare ed eseguirà il compito senza che ce ne rendiamo conto. È una questione di risparmio. Se ogni volta che muoviamo un passo dovessimo fare attenzione a ogni muscolo, avremmo ben poche possibilità di dedicarci ad altre attività. Ma le azioni che, una volta apprese, diventano automatiche sono parecchie: quando si ha sete, la mano si muove “da sola” verso il bicchiere. Allo stesso modo, si impara a guidare una volta per tutte, e quando si cambia la marcia non ci si concentra più sul movimento del braccio. Né ci si dimentica come si scia o come si va in bicicletta. Ma come fa il cervello a guidare il corpo come un pilota automatico?

Guardando s’impara
Gli inizi possono essere difficili. Quando si impara un gesto nuovo, il cervello scompone la sequenza dei movimenti da eseguire e si concentra sui particolari. Inizialmente si procede per prove ed errori. Chi cade mentre impara ad andare in bicicletta, si sbuccia un ginocchio ma capisce quale movimento non deve fare. A maggio, una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Neuron ha confermato che guardare qualcuno che esegue i gesti che stiamo imparando accelera il nostro apprendimento. Merito dei “neuroni specchio”, scoperti una quindicina di anni fa da Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato dell’Università di Parma. «Queste cellule si attivano vedendo una determinata scena, e preparano il cervello a eseguire gli stessi movimenti che stiamo osservando» spiega. L’attività dei neuroni specchio, infatti, si ripeterà con lo stesso schema anche quando il cervello ordinerà ai muscoli di muoversi. Quando il compito riesce, il cervello registra il successo e, nelle 6 ore che seguono, lavora per memorizzare la sequenza esatta dei movimenti eseguiti. È come se il sistema nervoso schiacciasse il pulsante “salva” per depositare il file nel suo hard disk. Sono 6 ore davvero critiche, durante le quali il cervello va lasciato tranquillo. È infatti dimostrato che chi cerca di imparare un ulteriore compito in quel periodo dimentica il precedente. Per questo ai maestri di tennis, per esempio, si consiglia di non impostare mai nello stesso giorno sia il dritto sia il rovescio. La memoria diventa più stabile con una bella dormita. E si consolida ulteriormente se il gesto viene ripetuto nei giorni seguenti. Lentamente le connessioni nervose che permettono di eseguire correttamente il compito si stabilizzano. Il movimento si fa più fluido e si può lavorare per renderlo più preciso. Alla fine diventa automatico, e non si dimentica più.

Ballare a occhio
Una volta che la memoria è consolidata, neppure la volontà più ferrea può scalfirla: e questo, a volte, può essere un problema. Per esempio, quando la lezione appresa era sbagliata! Qualche spazio di manovra, però, resta se siamo costretti a cambiare schema. Anche quando i movimenti diventano automatici, i nostri sensi sono sempre tesi a recepire ciò che accade attorno a noi; per questo, se lungo un percorso abituale ci avvicina un individuo sospetto acceleriamo l’andatura. A rafforzare la memoria dei gesti contribuiscono le informazioni che arrivano al cervello dalle articolazioni, dai tendini e dai muscoli. Qui, infatti, si trovano piccole strutture, i propriocettori, che tengono il cervello al corrente sulla posizione del corpo e gli dicono a che punto è il movimento. Si conosce un solo caso di un uomo che, in seguito a un’infezione, ha perso del tutto la propriocezione: è rimasto immobilizzato per mesi, finché ha capito che poteva sostituire i messaggi che il cervello riceve dai muscoli con quelli che provengono dagli occhi. Così ha reimparato a camminare, ma deve guardare a ogni passo dove mette i piedi e non perdere mai la concentrazione… La propriocezione è fondamentale per i ballerini: i messaggi che partono dai muscoli impiegano circa 60 millesimi di secondo a raggiungere il cervello, mentre gli stimoli visivi hanno bisogno di 10 millesimi di secondo in più. Per questo, i ballerini che si affidano troppo alle immagini che rimanda loro lo specchio sulla parete, sono meno bravi di quelli che si concentrano sui movimenti del corpo. In mancanza di muscoli, invece, i robot si affidano alla vista e all’udito per muoversi. Telecamere e sonar inviano all’elaboratore centrale le informazioni sull’ambiente e sulla posizione del robot, permettendogli di muoversi senza inciampare. Come fa il robot Asimo, della Honda. Mentre Rabbit, sviluppato dal Consiglio nazionale delle ricerche francese e dall’Università del Michigan (Usa), sa riacquistare l’equilibrio se viene spinto. Con un programma adeguato, un robot potrebbe eseguire anche sequenze di movimenti complessi. Per i ballerini, invece, non c’è programma che tenga: bisogna esercitarsi continuamente per mantenere in forma articolazioni e muscoli e per tenere a mente i passi delle coreografie. Accade lo stesso ai pianisti: resta la memoria della tecnica di base, ma l’agilità delle dita si perde e si dimenticano anche le note e i passaggi di un brano.

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Siete distratti? Parte 3.

Ecco la terza parte del post sulla memoria. La prima parte la trovate QUA, la seconda QUA.

Schedario del futuro
Impegni, telefonate, scadenze da rispettare sono tutte informazioni che vengono custodite in questo particolare archivio del nostro cervello, una specie di schedario dei programmi e delle intenzioni future. E dimenticarsene non è poi così difficile: se infatti nulla ci segnalasse di compiere quell’azione, come una nota sull’agenda o, appunto, un nodo al fazzoletto, la nostra memoria prospettica rimarrebbe disattivata e, di conseguenza, fallirebbe.

Meglio i farmaci o l’agenda?
Si possono combattere la stanchezza e l’arteriosclerosi, dicono gli esperti, ma per la distrazione di tutti i giorni i rimedi sono davvero pochi.
Allarme.
L’essere disattenti rientra infatti nella normalità e solo casi estremi devono allarmarci, come piccole e ripetute amnesie che, a una certa età, possono segnalare l’inizio di qualche patologia vascolare.
Placebo.
In commercio esistono tuttavia vari tipi di farmaci o integratori a base di zuccheri o fosfati: sostanze che già esistono nel nostro organismo e che, se assunte regolarmente per un paio di mesi, agirebbero come stimolatori dell’attività neurologica, arricchendo il “carburante” che il cervello utilizza per lavorare. In realtà, assicurano i medici, hanno un effetto praticamente impercettibile, tanto da poter essere definiti veri e propri placebo. Per capire meglio, due tazzine di caffè, nel breve periodo, sono molto più efficaci di qualunque farmaco di questo tipo nell’elevare i livelli di attenzione e la capacità di rimanere concentrati.
Automatismi.
Ci sono poi tecniche riabilitative della cosiddetta “memoria prospettica”, che oggi vengono per lo più sperimentate per patologie come l’Alzheimer: in pratica si cerca di rendere automatiche determinate azioni, che comunemente non lo sarebbero. Infine, una soluzione agli appuntamenti mancati potrebbe essere la classica agenda, ma non prima di aver imparato a consultarla con una certa frequenza.

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Siete distratti? Parte 2.

Ecco la seconda parte del post sulla memoria. La prima parte la trovate QUA.

Il confine della distrazione
Ma esiste un confine, nell’essere distratti, tra normalità e anormalità? Immaginiamo di dover cuocere un arrosto in forno e di doverlo togliere dopo circa 30 minuti. Durante l’attesa, nella nostra mente si attiva una sorta di orologio psicologico, attraverso il quale controlleremo periodicamente i minuti che passano. Se attendiamo ospiti per cena i monitoraggi saranno più frequenti e difficilmente ci capiterà di bruciare l’arrosto. Viceversa, se l’arrosto lo dovessimo mangiare da soli, anche l’attenzione calerebbe e una telefonata potrebbe essere sufficiente per farcene dimenticare, poiché le ricadute sociali, e il giudizio che ne conseguirebbe, sarebbero trascurabili. Se poi, invece di infornarlo, mettessimo l’arrosto in frigo, apparirebbe chiaro un disinteresse nei confronti del cibo o un eccessivo coinvolgimento emotivo in altre questioni. E fin qui tutto sarebbe nella norma. Se però l’arrosto lo sistemassimo nell’armadio e a fine serata fossimo convinti di averlo mangiato, allora sì che dovremmo preoccuparci. Potremmo essere infatti in presenza di una patologia fisica come quelle, di sorprendente drammaticità, descritte dal neurologo americano Oliver Sacks in alcuni dei suoi libri. Alzheimer, arteriosclerosi o tumori al cervello sono infatti capaci di provocare sbadataggini anche molto gravi, dovute a veri e propri malfunzionamenti del nostro cervello.

Cos’è una sedia?
Sacks, per esempio, racconta di un paziente psichicamente sano ma affetto da un male gravissimo, che confondeva la scarpa con il piede, gli idranti con altrettanti bambini e la propria moglie con un attaccapanni. Altri casi, poi, riguardano persone che, ferite alla testa, risultavano in grado di riconoscere gli oggetti, come una sedia o un computer, ma per un tempo più o meno lungo erano incapaci di ricordare l’uso che se ne può fare.
Infine, tra le cause della sbadataggine, da non trascurare è la stanchezza che, alterando i processi neurochimici, può rallentare sensibilmente i tempi di reazione, facendoci così apparire assenti e dunque distratti. Quando mancano le energie, inoltre, si riduce considerevolmente il nostro interesse per tutto ciò che comporta un’ulteriore fatica: dover cambiare direzione per evitare di schiacciare un giocattolo abbandonato per terra può per esempio sembrarci, inconsciamente, poco importante. Risultato: una caduta e un giocattolo rotto. Che sbadataggine!

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Siete distratti? Parte 1.

Dimenticate appuntamenti importanti o di acquistare il regalo di compleanno per il partner? Un nodo al fazzoletto è il rimedio più efficace, oltre che il più classico. Lo sostengono tre ricercatori statunitensi che, rielaborando una vecchia teoria, hanno qualche anno fa scoperto che cosa succede nella nostra mente quando, per non scordare qualcosa, ricorriamo a sistemi del genere. In pratica, secondo Mark Mc- Daniel, Bridget Robinson- Riegler e Gilles O. Einstein, delle università del Nuovo Messico e della Carolina del Sud, è come se la nostra memoria archiviasse nello stesso cassetto l’evento da ricordare e l’indizio o il suggerimento esterno che ci siamo creati. Quando poi rivediamo l’indizio,o il nodo al fazzoletto, l’informazione viene recuperata dall’ippocampo, una particolare area del cervello, e automaticamente inviata alla coscienza. Naturalmente, quanto più bizzarro è l’indizio tanto meglio funziona il trucco.

Genio senza pantaloni
Non sempre, tuttavia, la sbadataggine è dovuta alla smemoratezza. E lo dimostrano molti esempi tratti dalla vita di ogni giorno: dal pedone che, immerso nella lettura del giornale, attraversa l’incrocio con il rosso, allo studente che chiama la fidanzata con il nome della ex. Per ciascuna di queste sbadataggini, dalle quali ben pochi di noi sono immuni, esiste anche una spiegazione psicanalitica: il rifiuto inconscio di un certo compito, per esempio,oppure il desiderio di trasgressione o, al contrario, quello di punizione. Quale che ne sia la causa, la distrazione colpisce tutti, anche le personalità più straordinarie. Anzi, la storia è piena di artisti e scienziati disattenti, primo fra tutti il fisico Albert Einstein, che un giorno, mentre stava elaborando la teoria della relatività, uscì di casa per fare due passi dimenticando di indossare i pantaloni.

Ma che cos’è davvero la distrazione?
Bisogna innanzi tutto distinguere lo sbadato smemorato da quello disattento, e considerarne le implicazioni sociali. Per esempio, un brillante manager che al mattino si presentasse in ufficio con i calzini spaiati sarebbe considerato un gran distratto, ma non certo debole di memoria. Al momento di vestirsi, i suoi pensieri erano con ogni probabilità diretti altrove, presumibilmente a un problema di lavoro. E nella particolare scala di valori di questa persona, l’importanza dei calzini intonati è agli ultimi posti. Altri, con una scala di valori diversa, probabilmente arriveranno in ufficio vestiti alla perfezione,ma magari dopo aver perso l’autobus.

Turbamenti d’amore
Esiste anche un’altra spiegazione di alcune distrazioni. La nostra mente sarebbe infatti dotata di una sorta di serbatoio di attenzione: quando svolgiamo contemporaneamente due compiti, o quando siamo innamorati o fortemente coinvolti in un lavoro, il serbatoio va in riserva e noi non siamo più in grado di tenere sotto controllo le nostre azioni. Pensiamo, per capire meglio, a quanto difficile sia, per un automobilista alle prime armi, persino guidare e abbassare il finestrino allo stesso tempo. Quando si parla della distrazione dei geni il meccanismo che entra in gioco è esattamente questo: grandissima attenzione per il proprio lavoro e totale disinteresse per il resto del mondo. L’unica differenza è, ovviamente, che la sbadataggine di Einstein fa più notizia di quella di un signor Rossi qualsiasi. Bisogna tener conto anche di un altro meccanismo, quello dell’analisi sociale. Infatti i calzini spaiati, salvo casi eccezionali, fanno tutt’al più sorridere, ma le cose cambiano se ci si dimentica una data o un appuntamento importante: il colpevole subisce una vera e propria condanna sociale. È in occasioni come queste, che la distrazione coincide con la smemoratezza, in questi casi “fallisce la memoria prospettica”.

Automatismi scambiati
Esiste ancora un’altra categoria di distrazioni, che niente hanno a che vedere con la memoria e solo in parte con l’attenzione. Immaginiamo, per esempio, di confondere al mattino la schiuma da barba con il dentifricio. In questo caso la spiegazione sta nel fatto che per molte delle nostre azioni quotidiane inseriamo una sorta di pilota automatico e se si è soprappensiero non è raro che un automatismo si sostituisca a un altro. Qualcosa di simile accade quando una persona, diretta in palestra alla guida della propria automobile, si distrae parlando col passeggero e, senza rendersene conto, va verso l’ufficio, seguendo la strada che compie quotidianamente da molti anni. Insomma, l’automatismo prende il sopravvento sull’intenzione.

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Quanto dimentichiamo in fretta!

ricordi

La mia memoria continua a sorprendermi, e spesso non in maniera piacevole. Recentemente ho riletto uno dei miei libri preferiti. La prima volta che l’ho letto è stato all’incirca 13 anni fa , e ne ero molto entusiasta. Si tratta di un romanzo di un autore che amo molto, la scrittura ha un piglio vigoroso, la storia è eccitante ed ha scene che creano molta suspance.
Malgrado questo io non possedevo praticamente alcun ricordo del libro. Quasi tutto sembra essere volato via con il passare degli anni. Non potrei ricordarmi nemmeno la trama, la maggior parte dei personaggi e neanche una scena. L’unica cosa che vagamente mi ricordavo era il nome del personaggio principale, ma non ne sarei potuta essere sicura, probabilmente era il frutto della mia fantasia.

Questo è un esempio di quello che il professore di psicologia ad Harvard Daniel L. Schacter definisce il primo peccato mortale della memoria:l’aspetto transitorio. (Schacter,1999). La transitorietà può essere vista sia nella memoria a breve sia in quella a lungo termine. Con la memoria a breve termine si intende il ricordo delle cose presenti nella mente proprio ora, e solo quelle cose. D’altra parte la memoria a lungo termine è qualcosa che viene conservato per poter essere adoperato in un periodo successivo. Gli studi hanno mostrato che entrambe la tipologie della memoria possono essere estremamente fragili nelle loro specifiche scale cronologiche.

Memoria a breve termine: si dimentica velocemente.

Un esperimento classico sulla velocità con cui si dimentica è stato portato avanti da Peterson e Peterson (1959). Questi studiosi chiedevano ai partecipanti di memorizzare una sequenza di tre lettere, successivamente altre sequenza di altre tre lettere. Ai partecipanti veniva domandato di provare a ricordare le sequenze delle lettere dopo differenti lassi di tempo.
I partecipanti hanno sorprendentemente fallito questo semplice test. Dopo solo sei secondi di conteggio, veniva dimenticato metà della sequenza originale. Quando rispondevano dopo 12 secondi erano in grado di ricordare meno del 15 % della sequenza. Infine dopo 18 secondi era andato tutto smarrito.
Questo esperimento chiaramente mostra quanto velocemente le informazioni vengono dimenticate dalla memoria a breve termine. Così forse il libro che stavo leggendo così come è entrato è anche uscito. Senza alcun dubbio un po’ è rimasto nella memoria altrimenti avrei letto diverse volte la prima pagina, poi di nuovo, poi di nuovo…

Memoria a lungo termine: dimenticare lentamente.

Alcuni aspetti del libro sono rimaste nella memoria a lungo termine. Quali sono i processi che permettono ad alcuni elementi di rimanere e ad altri di essere dimenticati ? Infatti si conosce veramente poco a proposito di come noi dimentichiamo e sui tempi in cui questo si verifica. Tredici anni è un tempo piuttosto lungo per verificare cosa ricordo di quel libro e quello che è finito nell’oblio.
Tuttavia gli studi in proposito suggeriscono che quanto dimentichiamo probabilmente segue una funzione di potere. Questo significa che la maggior parte delle informazioni immagazzinate andranno presto via, dopo un po’ di tempo dimenticheremo in maniera molto più rallentata.

Registrazione, ricerca e ripetizione

Certamente non tutta la memoria come abbiamo detto è composta in maniera diversa, e per questo le ragioni per cui perdiamo alcune informazioni possono essere molte e diverse. Effettivamente, alcuni psicologi hanno sostenuto che realmente non dimentichiamo mai un’informazione. Forse, essi affermano sebbene quel dato non lo ricordiamo è ancora presente nella nostra mente ma non possiamo più accedervi.
Le indicazioni sono chiaramente importanti a richiamare gli avvenimenti alla memoria. L’odore della vernice può farci ricordare quel particolare giorno che abbiamo trascorso la giornata sotto la pioggia, rapiti da solitari pensieri. Di contro altre esperienze possono ostacolare certi ricordi. Il ricordo della rabbia dei genitori per la nostra marachella può ostruire il riaffiorare di quello che realmente abbiamo combinato.
La memoria è certamente destinata a deteriorarsi se non la usiamo. La ripetizione e il recupero vengono indicati come elementi per una maggiore registrazione della memoria. E’ molto interessante constatare che non vi è alcuna prova che la memoria negli esseri umani vada dissipata dopo un certo tempo. Forse tutta la memoria è davvero ancora lì.

E il mio libro?

Certo se il ricordo del libro non è andato perduto, sta facendo un ottimo lavoro nel non farsi trovare. Specialmente adesso che sto rileggendo il libro e quindi è sottoposto ad un continuo richiamo. Forse io ho dimenticato tutto oppure ho dimenticato quello che non mi ha interessata la prima volta. D’altra parte, sarò di nuovo in grado di emozionarmi rileggendo questo stesso libro tra 13 anni!

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Ce l’ho sulla punta della lingua!

lingua

I ricordi bloccati sulla punta della lingua.

Qual’è il nome dell’attore che stava in quel film …oh… non è possibile ce l’ho sulla punta della lingua …assomiglia a Denzel Washington ..ma non è… Mi sento che sto impazzendo se non ricorderò quel nome..”
La “ punta della lingua” detto anche “fenomeno TOT” (tip of the tongue) è stato molto documentato in psicologia. E’ un esempio molto comune di quello che Daniel L. Schacter chiama “blocco”, uno dei sette peccati della memoria (Schacter,1999 ). E’ un’esperienza soggettiva che si trova nella memoria ma per alcune ragioni non è possibile accedervi.
Può capitare che tutto quello a cui riesci a pensare è a qualcosa di molto simile, ad esempio incominci a pronunciare il nome di un attore che interpreta film molto simili. Sembra che sia proprio questo ricordo che impedisca il recupero di quello che realmente vogliamo. Altre volte non c’è nulla apparentemente che blocca il reperimento dell’informazione desiderata.
Gli studi realizzati sul “blocco” hanno mostrato che nella metà delle volte noi ci “sblocchiamo” dopo circa un minuto dalla dimenticanza. Il resto delle volte impiegheremo giorni a ritrovare la parola perduta.

Mi è venuto in mente era Will Smith!

Così finalmente ci viene in mente quello che stavamo cercando! Ma come accade che ad un certo punto dalla nebulosa appare la parola tanto anelata? Una teoria afferma che la nostra memoria riceve un aiuto ascoltando una parola con un suono simile. (James e Burke,2000). Questo forse è vero , ma va detto che bisogna essere dotati di una buona dose di fortuna per udire proprio in quel momento un parola che suona in maniera simile.

La sensazione delle parole sulla punta della lingua.

Un aspetto affascinante del “fenomeno TOT” sono gli studi sulla sinestesia. La sinestesia è una condizione abbastanza comune, in cui le persone attraversano dei collegamenti tra i loro pensieri e i sensi. Questo significa che alcuni sono in grado di associare un’esperienza di numeri, di colori, rumori, immagini, persino parole oppure sensazioni.
Quest’ultima categoria, una rara forma conosciuta come sinestesia lessicale-sensoriale, costituisce un’opportunità per studiare il fenomeno TOT in un modo inusuale. Simner e Ward (2006) hanno affermato che l’attraversare i pensieri nella sinestesia trasforma le parole in gusti, forse questi potrebbero letteralmente essere in grado di sentire il gusto delle parole che sono sulla punta della lingua prima che queste ricompaiano.
Magicamente, c’è la prova di quello che realmente succede.
Sinner e Ward (2006) hanno tentato di indurre un episodio TOT in laboratorio mostrando a 6 partecipanti con questa rara forma di sinestesia immagini di oggetti stravaganti, come ad esempio un ornitorinco. In alcune prove gli sperimentatori erano in grado di creare con successo un fenomeno TOT nelle cavie.
In maniera straordinaria questi soggetti capaci di provare una sinestesia lessicale-sensoriale provavano un gusto mentre cercavano di descrivere una parola. In un caso è accaduto che un partecipante ha provato il sapore del tonno mentre provava a ricordarsi la parola “nacchere”.
Dopo l’esperimento sono state poste delle domande per verificare l’esattezza delle risposte, ai partecipanti veniva chiesto quale gusto associavano a ciascuna parola usata durante la prova. Il gusto che comunicavano di assaporare era sempre lo stesso che avevano già comunicato.
Gli sperimentatori hanno ritenuto opportuno chiamare gli stessi partecipanti un anno dopo e sottoporli ad un test a sorpresa. Con sufficiente certezza il partecipante che aveva associato la parola nacchere al gusto del tonno, lo ha ripetuto parimenti dopo un anno.
In maniera simile gli altri 5 partecipanti allo studio hanno ripetuto gli stessi collegamenti tra sapori e parole.
Sebbene ciascuno di noi senta questo genere di esperienze estranee alla maggior parte di noi, Simner e Ward suggeriscono che un collegamento tra parole e sapori può essere attivo in ciascuno di noi, ad un livello inconscio.

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