Psiche e Soma

Ricette per una vita migliore!

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Il corpo? Non sa dir bugie.

Soltanto il sette per cento dei nostri messaggi è fatto di voce. Il resto lo diciamo con le gambe, le braccia, e perfino con il naso.

Quanto sono importanti le parole nella comunicazione? Non molto. Secondo una recente ricerca la comunicazione verbale ha un peso minimo nel bilancio dei rapporti sociali: appena il sette per cento, tutto il resto è affidato al linguaggio del corpo, un alfabeto infinito di gesti, sguardi, smorfie, posture, contrazioni muscolari talvolta impercettibili. Immobile o in movimento, il corpo è una continua fabbrica di segnali. Un certo modo di accavallare le gambe o di stringere la mano, uno scatto in avanti o un’occhiata possono rivelare molto più che qualche ora di colloquio.
Esistono piccoli movimenti, apparentemente irrilevanti che in realtà esprimono esattamente lo stato d’animo del momento. Un signore legge tranquillamente il suo giornale mentre attende di essere ricevuto per un importante colloquio di lavoro, e intanto allaccia e slaccia in continuazione l’ultimo bottone della giacca. Il suo abbigliamento è perfettamente in ordine, quindi la sua attività automatica non rientra nel quadro delle azioni del “sistemarsi” per apparire in ordine. Questo signore sta semplicemente indulgendo a quella che gli esperti di comunicazione chiamano attività dislocata, tutti quei gesti “inutili” che riflettono un momento di frustrazione o di conflitto interiore. Insomma, quel gesto irrequieto significa ansia. Tutte le attività dislocate rivelano agli altri i nostri impulsi frustrati e diventano così importanti segnali sociali. Ci sono casi in cui i gesti dislocati sono talmente ben mimetizzati che possono passare quasi inosservati. Durante una festa è molto frequente vedere persone che allentano la tensione sorseggiando una bibita senza avere sete o piluccando dal buffet anche se non hanno il minimo appetito. C’è anche chi sviluppa abitudini personali di dislocazione: far tintinnare le chiavi in tasca, sistemarsi i capelli, pulire gli occhiali col fazzoletto.

Fughe di notizie
Chi non cede a questi piccoli gesti di debolezza rappresenta l’eccezione, cioè non è sfiorato dal conflitto. Può essere una persona socialmente dominante, un asceta, un eccentrico, ma anche uno psicotico. Ma la maggior parte degli esseri umani ogni giorno ricorre alla dislocazione per superare lo stress dovuto a pulsioni contraddittorie: si vorrebbe essere lì e contemporaneamente da tutt’altra parte, dire una cosa e allo stesso tempo tacerla, isolarsi dagli altri e socializzare. Nella vita di relazione spesso cerchiamo di nascondere le nostre vere emozioni, ma spesso la mimica contraddice la parola facendoci dire la verità anche quando vogliamo nasconderla. Si verifica cioè una “fuga non verbale di notizie”. Naturalmente ciò che sta dietro una fuga di informazioni non verbali non è sempre una bugia. Talvolta è semplicemente la spia di un conflitto in cui pensiero e azione non coincidono, ma è sempre un modo per “raggirare” l’interlocutore, come quando, per opportunità, fingiamo interesse durante una discussione. Ma è proprio impossibile mentire bene imparando a dominare il corpo? Ci sono zone del corpo più facili di altre da controllare, dicono gli esperti. Il viso è in assoluto la parte che sa mentire meglio perché, chi più chi meno, siamo tutti in grado di gestire la mimica facciale a seconda della circostanza. Gli indizi più utili per scoprire se una persona sta mentendo arrivano dalle mani: o si muovono troppo, a causa della tensione, o troppo poco, perché, coscienti della possibilità di lasciar passare segnali rivelatori, tendiamo a “imprigionarle”, mettendole in tasca o stringendole l’una all’altra. Infine, occhio alle gambe e ai piedi: è la parte del corpo di cui siamo meno consapevoli e dalla quale deriva quindi la maggior fuga di informazioni. Spostamenti repentini dei piedi, calci dati all’aria, gambe rigide che contraddicono i segnali amichevoli o trattenuti delle mani. Il modo migliore per ingannare, dunque, è limitare i messaggi alle parole e alle espressioni del viso, ma siccome immobilizzare il resto del corpo risulterebbe ancora più inverosimile, il consiglio è di mentire esclusivamente quando il fisico è impegnato in un’attività che non consente distrazioni: mentre si parcheggia l’automobile, si sistemano dei documenti sullo scaffale più alto, o si fa sport.

Come si scopre l’inganno
Negli Usa sono stati realizzati molti esperimenti per scoprire quali sono le chiavi che permettono di smascherare un “bugiardo”. Uno dei più interessanti vede protagoniste un gruppo di allieve infermiere alle quali fu chiesto di descrivere ciò che avevano visto in una serie di filmati (interventi chirurgici particolarmente cruenti o scene piacevoli), a volte mentendo e a volte dicendo la verità. Fu chiesto loro di mentire bene per poter valutare la capacità di convincere un malato che un certo intervento chirurgico, particolarmente rischioso, era in realtà del tutto sicuro oppure di rassicurare un paziente ansioso tenendo conto del fatto che quest’ultimo avrebbe potuto scoprire l’inganno al minimo segnale contraddittorio non verbale. Ogni loro gesto venne registrato da alcune telecamere nascoste e studiato attentamente. Risultò che anche le migliori bugiarde non erano in grado di controllare totalmente la comunicazione non verbale. Innanzitutto, evitavano di sottolineare gesticolando parti del discorso che avrebbero dovuto enfatizzare. Tutti sappiamo infatti che basta un tremolio o una tensione delle mani per tradirci. Si toccavano il viso molto più spesso di quanto non accada normalmente. Tra i gesti preferiti, in assoluto: quello di sfregarsi il naso e coprirsi la bocca. Il secondo, da un lato indica la volontà di nascondere un’espressione sincera e che potrebbe smascherarci, dall’altro esprime il desiderio inconscio di imbavagliarsi per bloccare la bugia che sta uscendo.

Come Pinocchio
Anche il gesto di toccarsi il naso ha una duplice spiegazione: la mano si alza per chiudere la bocca, ma il cervello devia la mano per evitare che avvenga ed è sul naso che finisce per ricadere l’azione. Non basta. Il disagio, causato dall’ambiguità della situazione, produce una serie di piccoli mutamenti fisiologici, la mucosa delle narici diventa più sensibile, provocando una sensazione di lieve prurito, quasi impercettibile, ma sufficiente a far sì che il naso attiri la mano. Benché le infermiere fossero sedute si muovevano molto, proprio come chi vorrebbe scappare, ma non può. E infine mostravano delle microespressioni facciali simili, ma non identiche, a quelle associate alle verità. Movimenti dei muscoli appena accennati e che non duravano più di una frazione di secondo. Come se la faccia, per un attimo, si rifiutasse di mentire, l’intenzione però fosse immediatamente bloccata da un contrordine che le comandava di adeguarsi.

I segnali contraddittori
A volte, anche se siamo sinceri, il corpo invia segnali che possono confondere chi ci sta di fronte. Immaginiamo una scena come questa: all’uscita di una discoteca c’è una banda di teppisti, uno di loro rivolge pesanti apprezzamenti a una ragazza. Il suo fidanzato reagisce ma è in preda a desideri opposti: la paura, che vorrebbe farlo scappare, e l’aggressività, che lo spinge all’attacco. Ne deriva un atteggiamento ambiguo: il corpo assume una postura falsamente minacciosa (a esempio, anziché affrontarlo, si sposta di lato rispetto all’aggressore) ma l’espressione del viso è autenticamente aggressiva. Entrambe le azioni sono sincere perché riflettono emozioni davvero sentite anche se opposte. Per decidere come reagire, il teppista deve valutarle entrambe e capire qual è dettata dall’impulso più forte. Ma esistono situazioni difficili da interpretare. Come dovrebbe comportarsi il giovanotto di fronte al sorriso invitante di una ragazza che però tamburella nervosamente con le dita sul banco del bar? Il primo segnale dice: «possiamo fare amicizia», ma le mani avvertono «stai alla larga ». Quale delle due azioni è autentica? Probabilmente la ragazza mostra un sorriso di circostanza ma vuole essere lasciata in pace.

Fingersi bambine
E c’è, infine, un’altra strategia per confondere il prossimo. Consiste nel ricorrere alle cosiddette azioni “rimotivanti”: voglio che tu smetta un certo atteggiamento, quindi cerco di indurne in te un altro. Il funzionamento si basa sul fatto che due emozioni ad alta intensità si sopprimono a vicenda. La più comune azione rimotivante negli adulti è quella a cui ricorrono le donne di fronte a certi comportamenti aggressivi maschili: giocano a fare le bambine per suscitare nel maschio un atteggiamento paterno, un modo per trasformarlo da compagno critico a “papà” tenero e protettivo.

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Ci laviamo troppo?


Troppo sapone fa male alla pelle. Eppure ci si lava sempre di più. Perché?
E’ nato per caso in Mesopotamia, nel 3000 avanti Cristo. Cuocendo gli alimenti sul fuoco, il grasso, colando sulla brace, si mescolava con la potassa dando origine a una crema densa: ecco il sapone. Una scoperta che ha rivoluzionato la vita dell’uomo, tanto che oggi in Italia si spendono mille miliardi l’anno per l’igiene del corpo. Troppi, secondo i dermatologi.

Rifiutare l’animale
Ma perché ci si lava? Le ragioni di questa consuetudine dipendono dalla stessa termoregolazione umana. Probabilmente in tempi antichissimi l’uomo si è accorto che per rinfrescare la propria pelle c’era un’alternativa al sudare: quella di immergersi nell’acqua fresca di un fiume o di un lago. L’origine del lavaggio sta in questa prima scoperta. Dal semplice “bagno per rinfrescarsi”, nel giro di alcuni millenni si è però arrivati all’attuale amore per la pulizia e all’uso frequente di saponi e deodoranti. A volte, quasi una mania. Lo scopo principale del lavaggio oggi non è più raffreddare la pelle, ma è l’annullamento totale degli odori corporei. E la volontà di cancellare il proprio odore individuale dipende solo in parte dai condizionamenti indotti dai messaggi pubblicitari. Le vere cause sono più profonde: la nostra razionalità tende a rifiutare tutto ciò che non può controllare, odori compresi, perché sono legati agli aspetti più “animali” dell’essere umano.

Il business dei profumi
Così, è stato lo sviluppo della ragione che ha lentamente trasformato il caratteristico odore della specie umana (in sé né buono, né cattivo) in una puzza. Nessun animale, infatti, cancellerebbe mai il proprio odore: è un segno di riconoscimento fondamentale per indicare l’appartenenza a un gruppo e, allo stesso tempo, per affermare la propria individualità. E doveva essere certamente così anche per gli antenati dell’uomo moderno. Non solo: l’odore individuale è tuttora necessario. Infatti ci si profuma, perché l’esigenza di distinguersi dagli altri per il proprio odore è avvertita praticamente da tutti. I dati del mercato lo confermano: ogni anno in Italia si spendono quasi diecimila miliardi in prodotti di bellezza per il corpo. «Troppi, in confronto alle reali necessità di pulizia », commenta Carlo Signorelli, docente di Igiene presso l’università La Sapienza di Roma. «Secondo un’indagine condotta pochi mesi fa dal nostro istituto, i ventenni italiani fanno cinque docce la settimana in inverno, nove in estate. Per pulirsi ne basterebbero molte meno. Abbiamo chiesto ai giovani perché si lavano molto. Hanno risposto di farlo soprattutto per gli altri, per non dar loro fastidio a causa dell’odore corporeo».

Pericolo sapone
Passare il sapone sul corpo, magari più volte al giorno, però, danneggia la pelle. Il detergente, infatti, non sa distinguere tra grassi “cattivi” (lo sporco) e i lipidi naturali che si trovano sulla pelle (grassi “buoni” che hanno la funzione di difendere l’epidermide dagli attacchi esterni e di impedire che perda troppa acqua). Una bella lavata li rimuove entrambi. «La superficie della nostra pelle è formata da strati cornei uniti tra loro da lipidi, che la rendono elastica e impermeabile. Dopo ogni lavaggio con un detergente, l’epidermide impiega dalle 12 alle 24 ore a rigenerare lo strato lipidico che la protegge. Spesso, perciò, il risultato di lavaggi ripetuti è una pelle sempre più secca, perché non riesce a rimpiazzare i lipidi eliminati», spiega Marcello Monti, dermatologo e ricercatore presso il Policlinico di Milano.

Puzza di progresso
Un metodo alternativo è usare le mucillagini. Si tratta di farine di riso e avena che, a contatto con l’acqua, si gonfiano e assorbono lo sporco superficiale. Certo, non saranno efficaci come il sapone, ma per chi si lava spesso sono ideali. Ma eliminando il sapone, non si rischia di puzzare? Niente affatto, gli aborigeni australiani e i membri di alcune tribù africane non si lavano mai. Si bagnano solo quando piove. Eppure non sono sudici, né puzzano. La nostra pelle, quando riesce a mantenersi in equilibrio con l’ambiente esterno, si difende benissimo da sola. Le cellule superficiali, sfaldandosi, eliminano lo sporco da sé. Inoltre i batteri presenti sull’epidermide impediscono attacchi da parte di funghi o di altri microrganismi patogeni. Il discorso cambia nella nostra società industriale: in città l’inquinamento è tale che sulla pelle si deposita un velo di fuliggine e polveri che va rimosso. Inoltre i vestiti fanno ristagnare il sudore. Un barbone che non si lava mai ha la pelle quasi nera e, naturalmente, puzza. La necessità di lavarsi, quindi, è data solo dal progresso. Il motivo è semplice: lo sporco cutaneo in realtà non esiste. Il sudore e il sebo che spesso rivestono l’epidermide contribuiscono al suo equilibrio e non possono essere considerati sporcizia. La pelle è davvero sporca solo quando si ricopre di un grasso estraneo (per esempio quello di un motore di auto che rimane sulle mani di un meccanico). Su un grasso come questo, che viene dall’esterno, si depositano polveri e batteri che possono provocare infezioni. In questo caso lavarsi è indispensabile. La polvere, terreno ideale per la crescita dei batteri, non viene invece catturata dai grassi naturali dell’epidermide, perché questi si trovano tra uno strato corneo e l’altro, e non, come il vero sporco, tra l’aria e la pelle.

Una rinuncia impossibile
L’uomo, dunque, non è nato per lavarsi col sapone. Eppure quando i dermatologi sconsigliano l’uso del detergente ai pazienti affetti da dermatite (comunissima quella alle mani nelle donne che lavano spesso stoviglie e indumenti) vanno incontro a forti resistenze. Il concetto che lavarsi ogni giorno, in profondità, con il sapone sia necessario quanto mangiare o respirare è infatti molto radicato, perché? Il bisogno di lavarsi oggi non è più fisico, ma psicologico. Il relax nel bagno di casa è un momento di intimità con noi stessi e con il nostro corpo al quale non vorremmo mai rinunciare. Il lavaggio mattutino poi è un rito profondo, perché il contatto dell’acqua tiepida sulla pelle è estremamente piacevole . Tutti, infatti, siamo stati immersi per nove mesi nel liquido amniotico, che ci ha fornito le prime sensazioni esterne di calore. Il neonato conserva per un po’ di tempo la memoria di queste emozioni, tant’è vero che, se viene immerso nell’acqua tiepida, si rilassa. Il rito del lavaggio, quindi, si sovrapporrebbe a ricordi inconsci profondi e piacevoli. E allo stesso concetto di ingresso nel mondo attraverso un liquido, si richiamano alcune cerimonie religiose, come il battesimo. Il concetto di pulizia è strettamente legato a quello di purificazione. L’immersione o l’aspersione con acqua segnano l’ingresso in una nuova comunità, quella cristiana. L’individuo abbandona la vita precedente per un’esistenza nuova.

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L’ha detto la Televisione

Le notizie possono modificare idee e comportamenti? Si, ma solo in pochi casi…

Quasi tutti gli italiani guardano il telegiornale e seguono regolarmente alla tivù programmi culturali e d’attualità, per la precisione il 68,6 per cento (rispetto all’83 per cento che guarda la tivù ogni giorno). Il 60,2 per cento legge i quotidiani e il 32,6 ascolta abitualmente i radiogiornali. Lo rivela l’ indagine dell’Istat (l’Istituto di statistica) sui nostri comportamenti quotidiani. Riceviamo dunque ogni giorno da giornali, radio e televisione un vero bombardamento di informazioni. Secondo una teoria psicologica ogni notizia è come l’iniezione di un farmaco: ha un’influenza immediata sul comportamento delle persone, proprio come una medicina che, appena iniettata, scatena subito una reazione dell’organismo. Qual è dunque l’effetto delle notizie sulle persone? Davvero riescono a modificarne opinioni, comportamenti e scelte? E possono anche influire sul nostro inconscio? La risposta è sì, ma in modo diverso a seconda delle caratteristiche individuali, dei mezzi di informazione che ce le danno e di come ce le presentano di volta in volta.

In realtà i mezzi di comunicazione, più che alterare direttamente il modo di pensare e di agire del pubblico, selezionano gli argomenti sui quali tutti “devono” avere un’opinione. Quando i giornalisti diffondono determinate notizie, escludendone altre, creano una specie di “mappa dei fatti” sulla quale si concentra, e discute, la popolazione. C’è poi una seconda selezione: fra le notizie proposte da stampa, radio e televisione, ognuno sceglie quelle che lo interessano di più. Sui quotidiani, per esempio, gli adulti e i ragazzi leggono soprattutto gli articoli di politica e di attualità (70,3 per cento dei lettori), mentre le donne si concentrano sulla cronaca locale (76 per cento). Tutti, però, tendono a rivolgersi alle fonti d’informazione con le quali si sentono più in sintonia. Perfino durante le campagne elettorali, invece di confrontare il programma dei vari partiti, ci si informa prevalentemente attraverso i giornali che rispecchiano la propria ideologia. E si seguono i programmi radio e televisivi che danno più spazio al partito di appartenenza. Insomma, ognuno cerca di costruirsi un’ informazione su misura, che rispecchi il più possibile il proprio punto di vista.

E se, invece, non si ha ancora un’opinione su un avvenimento?
In questo caso, i servizi giornalistici possono influenzare i giudizi delle persone. Ma, per riuscirci, ne devono prima catturare l’attenzione. Il pubblico, in realtà, riesce a memorizzare soltanto una minima parte delle notizie diffuse dai vari canali d’informazione. Ecco perché più i messaggi sono brevi, ripetuti e semplici (richiedono, cioè, un minimo sforzo di comprensione), più vengono recepiti e hanno, quindi, possibilità di orientare le scelte delle persone. Lo confermano tutte le ricerche psicologiche più recenti, condotte sia in Europa che negli Stati Uniti, nelle quali sono state analizzate anche le caratteristiche più efficaci delle informazioni “persuasorie” per eccellenza: quelle pubblicitarie e quelle diffuse durante le campagne elettorali. I risultati sono identici: in entrambi i casi, infatti, le persone condividono, o comunque accettano più facilmente, i messaggi che hanno uno o più elementi a loro familiari. Ciò favorisce un processo di identificazione con l’autore, e perfino con il contenuto che le sue parole hanno espresso. Inoltre, di solito ci si lascia convincere più facilmente se chi lancia il messaggio è un personaggio di successo, sul quale inconsciamente si trasferisce la responsabilità della propria, eventuale adesione. Le informazioni “persuasorie” producono, secondo gli studiosi, “effetti limitati” sulle persone, proprio perché di solito hanno un unico obiettivo da raggiungere, e in breve tempo: durante e subito dopo una “campagna” sulla ricerca scientifica, per esempio, la popolazione reagisce versando ai centri di ricerca una maggior quantità di finanziamenti. Poi, però, la campagna d’informazione finisce e tutto torna come prima.

Le notizie, dunque, esercitano soltanto un’influenza temporanea?
Niente affatto. Anzi, possono anche suscitare reazioni profonde, imprevedibili. E’ accaduto con la guerra del Golfo, nel 1991: durante la prima settimana, le immagini del conflitto tennero incollati davanti allo schermo 9 milioni di italiani. Suscitando nelle persone anziane insonnia, paura, ricordi angosciosi della seconda guerra mondiale.

Oggi, insomma, le notizie puntano sempre più spesso sul coinvolgimento emotivo del pubblico. Ma, in questo modo, colpiscono direttamente l’inconscio delle persone. In particolare, le notizie presentate in modo drammatico e che riguardano un episodio violento, come un omicidio, stimolano in ognuno sia le tendenze sadiche che quelle masochistiche. Cioè le due forze aggressive contrapposte che covano in ognuno di noi, così scatta una doppia paura: quella di essere violenti e quella di subire un’aggressione. Eppure, le centinaia di informazioni su incidenti, rapine, violenze d’ogni tipo che tutti ricevono quotidianamente sembrano cadere nell’indifferenza. Il fatto è che non siamo in grado di sopportare notizie sconvolgenti. Mancano sicurezze, e modelli di riferimento precisi attraverso i quali filtrare la realtà. Inoltre non riusciamo a elaborare tutte le informazioni che riceviamo ogni giorno. Risultato: ci difendiamo con il distacco. Si tratta, però, di un distacco apparente. Perché, dietro l’indifferenza, le notizie continuano a esercitare in ognuno una profonda influenza, in modo diverso a seconda della personalità. I messaggi violenti o preoccupanti possono far vacillare o, addirittura, far crollare le difese di un individuo. Provocando in lui forti angosce, o liberando i suoi aspetti più nascosti. Per esempio, di fronte alla notizia di un suicidio, in chi ha represso per anni il desiderio di compiere quel gesto può scattare l’impulso ad agire. Secondo lo studio di un sociologo australiano, Riaz Hassan, la media quotidiana dei suicidi sale di circa il 10 per cento nei 2 giorni successivi alla comparsa sui giornali della notizia di un suicidio.
Secondo gli psicologi, infatti, c’è una parte inconscia in noi che, assistendo alle tragedie altrui, riesce a scaricare tensioni e provare in qualche modo sollievo. Un meccanismo morboso, cioè quasi patologico e in genere del tutto incontrollabile. Le notizie, dunque, possono provocare ansia, angoscia, liberare gli aspetti repressi di sé, spingere alla violenza, alimentare un sottile compiacimento sadico. Tutto questo accade, in particolare, a chi non possiede una “interiorità strutturata”, cioè alle persone psicologicamente più deboli, come disturbati psichici o semplici depressi, o a chi attraversa un momento di particolare fragilità. Ma tutti, in un modo o nell’altro, subiscono l’influenza delle notizie.

Come difendersi? L’unico modo, dicono gli esperti, è utilizzare più canali d’informazione, per contrapporre alle insidie delle tecniche giornalistiche una preparazione più solida e una maggiore capacità di giudizio.

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Che riflessi!

Lo scatto fulmineo non è una questione di nervi, ma di esperienza.

E’ la rivincita del sedentario sull’atleta. Nel laboratorio di ricerche sullo sport dell’università di Grenoble hanno messo schermidori provetti e persone comuni davanti allo stesso apparecchio: un interruttore da spegnere allo scoccare di un lampo. I tempi di reazione sono stati pressoché uguali per tutti: da 110 a 130 millisecondi. Per tempo di reazione si intende quello che passa tra l’inizio del segnale e l’inizio della risposta. «Gli sportivi non sono stati più veloci degli altri», raccontano i ricercatori che hanno condotto l’esperimento. Un’eccezione? Niente di strano: i riflessi sono una naturale reazione dell’organismo a una stimolazione del sistema nervoso: una risposta automatica. I sensi, come gli occhi o le orecchie, colgono il segnale e lo trasmettono sotto forma di impulso nervoso al midollo spinale. Da qui arriva al cervello, che lo interpreta e lo invia di nuovo alla periferia con un messaggio preciso: reagire. A quale velocità? Fino a 120 metri al secondo nelle fibre mieliniche, quelle che controllano i muscoli scheletrici, a meno di 5 metri al secondo nelle altre. Velocità uguali per tutti. In altre parole, essere sportivi non è una garanzia di velocità e di prontezza di riflessi sempre e in tutte le circostanze: se un pedone compare all’improvviso davanti all’auto, tutti hanno le stesse possibilità di evitarlo. Ma allora, perché il centometrista scatta solo 130 millesimi di secondo dopo lo “start”, mentre una persona normale ha bisogno di almeno un secondo? Perché un bravo portiere riesce in 0,3 secondi a fermare la palla del rigore, mentre uno qualsiasi non ha nessuna probabilità di riuscirci? Le ragioni sono altre e diverse e solo il perfetto equilibrio tra di esse consente di ottenere i migliori risultati.

1. La motivazione.
La velocità dipende dalla concentrazione e dalla carica emotiva. «Se dalla mia reazione dipendono le sorti della squadra, se voglio battere un record, se la conquista di quella medaglia è il sogno della mia vita, la mia attenzione sarà totalmente concentrata su ciò che sto facendo », spiega Marco Camozzini, insegnante di educazione fisica (Isef), esperto in scienze motorie. La tensione stimola le ghiandole surrenali a produrre cortisolo e adrenalina, ormoni che “attrezzano” l’organismo alla reazione: aumentano il ritmo respiratorio e le pulsazioni cardiache. E i muscoli vengono irrorati maggiormente di ossigeno dal sangue. Se l’ansia da prestazione è eccessiva, invece, rallentano i tempi di reazione: infatti, gli ormoni prodotti in eccesso, “intasano” le fibre muscolari, rallentando la capacità di risposta.

2. L’allenamento.
E’ necessario che l’apparato locomotorio sia in perfetta efficienza. Se l’ordine di reagire arriva a un muscolo atono, a un’articolazione poco elastica, l’esecuzione del gesto sarà necessariamente lenta.

3. Gli automatismi.
Si chiama schema motorio prestabilito e si acquisisce con l’esperienza: a un determinato segnale, reagiamo istintivamente con un gesto appropriato. Più sono numerosi e complessi gli automatismi acquisiti, minore è il coinvolgimento della coscienza, e anche il tempo di reazione diminuisce. E’ un meccanismo neurologico che somiglia a una scorciatoia: quando l’impulso arriva al midollo spinale, questo impartisce direttamente ai muscoli il comando di reagire e contemporaneamente invia al cervello una copia del messaggio per informarlo di ciò che sta accadendo. A questo punto però la reazione è già avvenuta.

4. La capacità di previsione.
Per reagire velocemente bisogna anticipare, cioè codificare e riunire in pochi millesimi di secondo le informazioni che giungono dall’ambiente circostante prevedendo ciò che accadrà. In un tempo che va da 300 a 600 millesimi di secondo, un tennista può prevedere a quale velocità e con quale traiettoria viaggia la palla che dovrà ribattere. Come? «Osservando la posizione del corpo, lo sguardo dell’avversario, l’inclinazione della racchetta», continua Camozzini. La velocità di reazione è proporzionale alla qualità e non alla quantità di informazioni che l’atleta riesce a cogliere. Il centometrista ai blocchi di partenza sa bene che tipo di segnale riceverà (il colpo di pistola), sa cosa dovrà fare appena arriverà. E sa che esso è preceduto da altri segnali preparatori (“Ai posti di partenza”, “Pronti”). L’unica incertezza riguarda il momento in cui verrà. E’ su questo che lui concentrerà tutta la sua attenzione.

Esiste una predisposizione a “prevedere”, una capacità innata di coordinare le informazioni e di rispondere più rapidamente di altri? Forse sì, ma nessuno è riuscito a dimostrarlo. Invece, è ormai dimostrato che si sta creando una nuova generazione di persone che questa capacità la possiede in misura finora del tutto sconosciuta: è la generazione del “joystick”, i giovani allenati da ore e ore passate davanti ai videogiochi. Gli istruttori dei giovani carristi dell’esercito francese hanno scoperto che hanno capacità di osservazione delle situazioni e di anticipazione delle scelte, di cui i loro genitori erano del tutto sprovvisti.

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Brufoli: cosa bisogna sapere


Lo hanno paragonato a un vulcano in eruzione. O, meglio ancora, a un campo di battaglia. Dentro un foruncolo si combatte infatti una microguerra, con morti, feriti, vittime innocenti e perfino sciacalli pronti ad approfittare della situazione. Ed è proprio questo combattimento a provocare l’esplosione del “cratere”.

In principio è il punto nero
Tutto comincia con l’infezione di un comedone, cioè di un punto nero.  Sulla nostra pelle vivono infatti alcuni batteri di solito del tutto innocui come il Propionibacterium acnes e lo Staphylococcus epidermis. Essi possono penetrare all’interno dei pori otturati dai punti neri e provocare l’eruzione dei foruncoli. I batteri passano attraverso il poro e scendono nel follicolo dove si trovano le cellule che fanno crescere i peli e quelle che producono sebo, la sostanza oleosa che li protegge.

Guerra sotto la pelle
Questa infezione richiama subito le difese dell’organismo. Dai vasi sanguigni e dal derma circostante (il tessuto sotto l’epidermide) accorrono globuli bianchi e anticorpi. L’intera zona si gonfia: è nato il foruncolo. È rosso perché i capillari si dilatano per favorire l’afflusso dei “difensori”, che di solito nel giro di 24-48 ore distruggono i batteri. È una battaglia senza esclusione di colpi, che coinvolge anche gli innocenti: i globuli bianchi emettono infatti enzimi capaci di distruggere la membrana esterna dei batteri. Ma gli enzimi non fanno distinzione, e disgregano anche la parete delle cellule circostanti, quelle che formano il follicolo. Ecco perché, quando i foruncoli sono molti e profondi (come nei casi di acne grave), possono rimanere cicatrici. Verso la fine della battaglia, poi, dal sangue arrivano i macrofagi, cellule specializzate che fanno piazza pulita dei resti dei combattenti morti.

Cos’è il liquido giallo?
A questo punto il foruncolo è pieno di un liquido giallo, fatto di acqua, un po’ di sebo, anticorpi e batteri “sconfitti”, che riesce a farsi strada verso la superficie e a uscire dal poro. L’infezione è vinta. Il brufolo guarito. Lentamente anche il rossore diminuisce: i capillari si stringono e tornano di dimensioni normali.

Ormoni in campo
Perché ci sia un foruncolo, dunque, occorre che sulla pelle esista almeno un punto nero. È una specie di “reazione a catena”, che si innesca soprattutto durante l’adolescenza, ma che è alla base della formazione dei foruncoli anche negli adulti. Gli androgeni (ormoni sessuali) stimolano le ghiandole sebacee, che si trovano annesse a ognuno dei peli dell’epidermide, a produrre più sebo.

Uscita bloccata
La pelle diventa lucida, grassa, e reagisce facendosi più spessa: ciò fa sì che il poro si chiuda. La ghiandola continua a funzionare, ma il sebo non esce più: nel giro di qualche giorno si forma il punto nero.

È rosso? Non spremerlo
Serve schiacciare i foruncoli? Solo se hanno la puntina gialla leggermente in rilievo sul gonfiore circostante: significa che ormai l’apparato immunitario ha svolto fino in fondo il suo compito e si può fare uscire il liquido. Basterà tendere e poi premere un po’ la pelle intorno. Se invece il foruncolo è ancora soltanto rosso, schiacciare può addirittura essere dannoso: il liquido non può uscire perché il gonfiore ha stretto il canale che porta verso il poro e, premendo la zona con le dita, le pareti interne del follicolo possono rompersi, propagando l’infezione al derma circostante, con il risultato di aumentare il diametro del brufolo e quindi il rischio di cicatrici. Schiacciare i punti neri serve invece a impedire che si trasformino in foruncoli.

I brufol-esenti
Il brufolo, comunque, non è da tutti: ci sono persone che passano l’adolescenza senza un foruncolo, la pelle liscia come la seta, e altre che devono combattere con essi tutta la vita. La spiegazione è semplice: dipende dal numero e dal funzionamento dei recettori per gli ormoni che ognuno di noi ha sulle ghiandole sebacee. Alcune persone nascono con ghiandole dotate di molti recettori: alla pubertà esse cominceranno a funzionare e, ricevendo più ormoni, produrranno più sebo, dunque comedoni e foruncoli. Altri hanno meno recettori e quindi la pelle liscia. Non a caso ci sono popolazioni che non hanno quasi mai brufoli, come i giapponesi e i coreani: nelle loro ghiandole, pochi recettori.

Il cioccolato non c’entra nulla
Il cioccolato è innocente. Si può mangiarne a volontà e non avere un brufolo in più. Lo stesso vale per gli alimenti piccanti o per altri tipi di dolci. Diversi esperimenti condotti negli Stati Uniti hanno ormai dimostrato in modo inequivocabile che non sono gli alimenti a riempire la faccia di brufoli (a meno di non essere allergici, naturalmente).

Dieta dolce.
I ricercatori hanno messo due gruppi di adolescenti a diete differenziate: una ricca di cioccolato e dolciumi, l’altra del tutto priva di leccornie dolci. Dopo alcune settimane hanno messo a confronto le foto del viso dei ragazzi scattate prima e dopo l’esperimento. Il risultato? Le facce piene di brufoli prima della “cura al cioccolato” erano ancora foruncolose, ma l’acne non era aumentata, mentre la pelle dei ragazzi che non soffrivano di acne non aveva neanche un brufolo, come sempre. In compenso, i giovani del gruppo più fortunato erano ingrassati

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Come agiscono gli anabolizzanti?


Gli steroidi anabolizzanti sono gli ormoni sessuali maschili androsterone e testosterone e i loro derivati. Sono secreti dagli apparati riproduttori maschili e femminili per favorire la crescita armonica del corpo e aumentare la massa e la forza muscolare durante la pubertà. Perciò sono assunti da molti atleti. Ma l’azione e la quantità degli ormoni prodotti dall’organismo sono regolate da meccanismi naturali che vengono alterati da un’assunzione eccessiva.
Molti studi hanno dimostrato che non ci sono differenze significative nella massa e nella potenza muscolare tra gruppi di atleti che assumono queste sostanze e quelli che praticano un normale allenamento. L’aumento reale del volume e della forza muscolare non sono quindi dovuti alla pura e semplice somministrazione degli steroidi, ma si verificano se si seguono contemporaneamente un allenamento intenso e una dieta appropriata. L’aumento dei muscoli dovuto agli steroidi in queste condizioni dipende dai liquidi trattenuti nei tessuti. Sospendendo la somministrazione e l’allenamento, i muscoli si sgonfiano rapidamente per la perdita dei liquidi in eccesso.
Le ricerche mediche su migliaia di atleti che hanno abusato di steroidi hanno rivelato numerosi effetti collaterali: testicoli ridotti in dimensioni e funzionalità, con perdita del desiderio sessuale e della fertilità; aumento del seno nell’uomo, mascolinizzazione nella donna (cambio della voce, aumento di peli e riduzione del seno), infiammazione cronica al fegato e ipertensione, con maggior rischio di cancro e di disturbi cardiocircolatori. Spesso gli atleti assumono steroidi prodotti artificialmente convinti che i prodotti sintetizzati abbiano effetto solo sullo sviluppo muscolare. Ma finora non esistono molecole di sintesi in grado di mantenere alcuni effetti ed eliminarne altri.

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Le ricerche “scientifiche” più pazze e curiose. Volume 2


Ecco la seconda parte sulle ricerche scientifiche più curiose. La prima parte la trovate QUA.

Barbecue a ossigeno liquido
Non sono comunque esperimenti da fare in casa. Tanto meno quelli di George Goble, ingegnere alla Purdue University, nell’Indiana (Usa), specializzato nel cuocere gli hamburger a tempo di record. Per farlo, accende la carbonella in tre secondi versando su un mozzicone di sigaretta alcuni litri di ossigeno liquido, altamente infiammabile. Peccato che la palla di fuoco che ne consegue incenerisca talvolta l’intero barbecue.

Anticristo e pop corn
Fin qui si è scherzato. Ma c’è anche chi, convinto di fare sul serio, conduce e divulga “ricerche che non si possono o non si dovrebbero ripetere”, come recita il regolamento del premio IgNobel, assegnato annualmente da una prestigiosa ma non del tutto accademica rivista pubblicata all’università di Harvard: gli “Annali della ricerca improbabile”. Fra i premiati figura l’Agenzia meteorologica giapponese, per uno studio settennale volto a stabilire se i terremoti sono causati dal movimento della coda dei pesci gatto. Ma c’è anche chi, in America, ha calcolato l’esatta probabilità che Michail Gorbaciov fosse l’Anticristo (1 su 8.606.091.751.882). E l’Agricultural research service americano si è dedicato, con successo, a realizzare un apparecchio che riesce ad annusare l’aroma dei pop corn. Di un’ingrata missione umanitaria si è invece fatto carico Robert Lopez, veterinario. Per verificare se gli acari delle orecchie del gatto sono dannosi per l’uomo, ha pensato bene di prelevare questi parassiti e di inserirseli nell’orecchio. È sopravvissuto abbastanza per ritirare l’IgNobel.

Cerniere e pene
Gli organizzatori del premio non trascurano la letteratura. L’edizione 1992 se l’è meritata il russo Yuri Struchkov, per i suoi 948 lavori scientifici pubblicati in 10 anni (in media uno ogni quattro giorni). L’anno successivo è stata la volta dei 976 co-autori di un articolo di medicina, che conta cento volte più firme che pagine. Ed è proprio il campo medico quello dove più abbondano gli studi bizzarri. Gli scienziati del Centro ricerche Shiseido di Yokohama hanno studiato i composti chimici responsabili dei piedi maleodoranti, concludendo che le persone che ritengono di avere i piedi che puzzano li hanno realmente, mentre quelli che ritengono di non averli, effettivamente non li hanno. Più utile, forse, il rapporto di James Nolan, Thomas Stillwell e John Sands sulla “Gestione d’emergenza del pene intrappolato nella cerniera lampo”.

Ma ride bene chi ride ultimo, anche fra gli scienziati
Ricerche che a prima vista fanno sorridere possono talvolta portare a utili scoperte. Uno studio del 1991, intitolato “Effetti della respirazione forzata da narice sull’apprendimento”, ha trovato inaspettata applicazione nella diagnosi di alcune malattie cardiache.
Mestruazioni e orsi.
Un’accurata analisi statistica sullo stato mestruale delle donne americane aggredite dagli orsi ha reso più spensierati i week-end nei boschi, sfatando la credenza che i plantigradi siano attratti dall’odore del mestruo. Ossigeno per caso.
Altre scoperte sono avvenute per gioco. Sul finire del ’700, Joseph Priestley si dilettava a portare varie sostanze ad alta temperatura. Scaldando dell’ossido di mercurio con i raggi solari concentrati da una lente, isolò un gas infiammabile che, se inalato, dava un effetto di benessere: l’ossigeno.
Tiramolla e il nylon.
Negli anni Trenta, i ricercatori della Du Pont si divertirono un giorno ad allungare il più possibile le fibre dei poliesteri. Partendo dal laboratorio arrivarono fino al piano sottostante, accorgendosi che a mano a mano le fibre diventavano simili alla seta e molto più resistenti. Purtroppo i poliesteri non erano utilizzabili dall’industria tessile. Ci provarono allora con le poliammidi, scoprendo le qualità del nylon.

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Le ricerche “scientifiche” più pazze e curiose. Volume 1

A chi verrebbe mai in mente di ottenere luce dai cetrioli sott’aceto? O di incenerire il barbecue pur di accendere la carbonella nel minor tempo possibile? O di mettere un compat disc nel microonde, giusto per vedere che succede. Eppure qualcuno c’è. E non si tratta di folli, ma di stimati professori, spesso appartenenti a prestigiose università. In alcuni casi l’hanno fatto per gioco, anche se rispettando scrupolosamente le procedure imposte dalla scienza sperimentale. In altri casi si tratta di ricerche serissime, svolte nell’ambito di progetti regolarmente finanziati e mirati a ottenere risultati concreti. Certo, le vie della scienza sono infinite. E spesso le scoperte più importanti avvengono assolutamente per caso. Ma è difficile immaginare come possano essere utili all’umanità studi come quello sull’incidenza della stitichezza fra i soldati in guerra, svolto dai medici dell’US Army o quello sul lato di caduta più frequente dei toast imburrati, concepito all’università di Birmingham. È per ricordare che la scienza è fatta anche di queste ricerche apparentemente assurde e spesso ridicole che un gruppo di allegri scienziati ha istituito il premio “IgNobel”, in memoria di un certo Ignatius Nobel, inventore del seltz e presunto parente del più famoso Alfred. Ecco alcuni esempi di scienza forse “futile” ma tutt’altro che noiosa.

Paracadute alla crema
Chris Gouge e Todd Stadler, della Rice University di Houston, hanno sottoposto a numerosi test le tortine Twinkie: merendine di pandispagna ripiene, diffuse negli Stati Uniti. Gli esperimenti spaziavano dal “test di solubilità”, nel quale una tortina immersa in acqua si è espansa fino a raddoppiare le sue dimensioni, al “test di resistività elettrica”, col quale si è dimostrato che le torte possono essere usate per isolare i cavi elettrici. Nel corso del “test di risposta gravitazionale”, poi, una torta è stata fatta precipitare dal sesto piano riportando solo lievi danni. Questo ha permesso ai due scienziati di presumere che, se un uomo fosse costretto a saltare dall’alto di un edificio, potrebbe efficacemente rivestirsi di tortine per attutire la caduta. Ma aggiungono: «Non abbiamo verificato sperimentalmente questa ipotesi e non consigliamo di farlo. Tuttavia, se proprio qualcuno decidesse di non darci retta, ci racconti almeno com’è andata».

In barba alle credenze
I colleghi di Pete Hickey, un tecnico delle comunicazioni all’università di Ottawa (Canada), hanno ormai smesso di meravigliarsi vedendolo con una metà del volto rasata e l’altra metà ricoperta da una folta barba. L’inverno canadese è rigido, e Hickey sta controllando se è vero il detto popolare secondo cui la barba tiene caldo. «Nell’interesse della scienza, avevo pensato di tagliarmela interamente per scoprire se avrei sentito più freddo», dice. «Ma poi mi sono reso conto che quest’anno l’inverno sarebbe potuto essere diverso dal precedente: più caldo o più freddo». Il confronto andava fatto istantaneamente, con un “campione di controllo”. Così la scelta è stata obbligata: radersi solo metà barba. Sulla scorta delle osservazioni raccolte in ogni condizione (sciando, correndo e pedalando), Hickey è portato a credere che, sì, dalla parte senza barba si sente più freddo. Ma gli è rimasto un dubbio: e se fosse condizionato a percepire il lato barbuto come più caldo? «Bisognerebbe radere a qualcuno metà viso, ma senza dirgli quale», suggerisce. La barba può avere anche effetti meno scontati. Catherine Maloney e altri quattro ricercatori di varie università statunitensi hanno condotto uno studio sulle reazioni dei gatti alla vista di uomini barbuti. Agli animali sono state fatte vedere cinque fotografie di uomini con barba e sono state misurate le reazioni (battito cardiaco, frequenza respiratoria, dilatazione delle pupille, comportamento). Il risultato? Ai gatti non piacciono gli uomini con la barba lunga, specie se scura.

Sanguisughe alcolizzate
Dai gatti ai vermi. La ricerca di Anders Baerheim e Hogne Sandvik, dell’università di Bergen, in Norvegia, ha per titolo: “Effetto di birra, aglio e panna acida sull’appetito delle sanguisughe”. Le ripugnanti bestiole sono ancora utilizzate in microchirurgia per rimuovere il sangue dalle suture. «Solo che a volte le sanguisughe si rifiutano di fare il loro lavoro», scherzano i due. Quale rimedio adottare per stimolarne l’appetito? L’immersione nella birra ha avuto come unica conseguenza di vedere le sanguisughe perdere la presa e cadere poi sul dorso. Anche la panna acida, spalmata sulla pelle, ha dato risultati deludenti. L’aglio, invece, ha richiamato irresistibilmente le sanguisughe. Ma l’attrazione è stata fatale: sono morte per avvelenamento poche ore dopo. «Se l’aglio attira le sanguisughe, probabilmente ha lo stesso effetto anche sui vampiri, contrariamente a quanto si pensa », commentano i due studiosi.

Toast gravitazionali
Parlando di appetito, non si può trascurare l’opera di Robert Matthews, volta a stabilire se è vero che i toast che sfuggono dal piatto hanno la naturale tendenza a cadere per terra sul lato imburrato. Matthews, fisico alla Aston University di Birmingham (Inghilterra), ha dimostrato con una pubblicazione sull’European Journal of Physics che la rotazione indotta dal bordo del piatto è insufficiente a far compiere al toast una capriola completa prima di toccare terra. Ma non c’è da disperare: l’astuto scienziato ha già escogitato alcune soluzioni. Per esempio mangiare su tavoli alti 3 metri, o ridurre le dimensioni dei toast, o imburrare il lato inferiore.

Cd nel forno a microonde
Anche un colosso dell’elettronica come la Digital si è occupato di alimenti. Un gruppo di ingegneri guidati da Bill Hamburgen ha redatto un rapporto sul modo migliore di ottenere luce da un cetriolo sottaceto. Inserendovi elettrodi di ferro e facendo passare una corrente alternata, l’ortaggio s’illumina. In prospettiva, si potrebbe pensare di sostituire i filamenti delle lampadine con i cetriolini, se non fosse che i sottaceti elettrificati puzzano. Effetti luminosi altrettanto spettacolari li ha ottenuti Patrick Michaud con gli acini d’uva. Opportunamente tagliati e posti in un forno a microonde, sprizzano fiamme e scintille per vari secondi. Sebbene Michaud studi alla Texas A&M University, non se la sente di assumersi responsabilità: «Se il vostro microonde salta in aria e la casa prende fuoco, chiamate i pompieri, non me». Il fascino delle microonde ha attratto anche Peter Jaspers-Fayer, dell’università di Guelph (Canada), che ha voluto indagarne gli effetti su un compact disc. La superficie si screpola mentre il forno è inondato da lampi di luce. «Sembra l’astronave Enterprise di Star Trek colpita da un fascio di energia romulana», dice Jaspers-Fayer.

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Perché esiste la morte?

La morte per vecchiaia non c’è sempre stata. L’ha “inventata” l’evoluzione perché utile alla vita. Impareremo a controllarla?

La morte per vecchiaia è sempre apparsa all’uomo come il destino ineluttabile di tutte le forme di vita. In realtà non è così. Per almeno tre miliardi di anni la vita (presente sotto forma di batteri e organismi unicellulari) ha fatto a meno di questo modo di morire. I batteri, per esempio, ancora oggi sono organismi virtualmente immortali, che si trasformano nei loro discendenti per continua divisione cellulare. Solo eventuali attacchi portati dall’esterno li distruggono, non il tempo. Gli individui pluricellulari che si riproducono per via sessuale, come l’uomo, sono invece destinati a invecchiare e morire. Per capire le ragioni di questa diversità bisogna rifarsi alle leggi dell’evoluzione. Eliminando i soggetti meno adatti, l’ambiente seleziona i caratteri ereditari di una popolazione. La sopravvivenza di una specie ai cambiamenti ambientali dipende dalla disponibilità di geni sempre diversi nel tempo, che danno alla specie la possibilità di cambiare e adattarsi a situazioni nuove.

La varietà e il sesso
I batteri evolvono solo attraverso mutazioni genetiche. Raramente la loro scissione dà luogo a errori di duplicazione del genoma, ma gli individui risultanti sono per lo più inadeguati e scompaiono. Tuttavia, un piccolo numero di mutazioni apporta benefici e garantisce la sopravvivenza a questi organismi rudimentali. Per le più complesse specie pluricellulari, la variazione indotta dalle mutazioni è insufficiente. Questi organismi hanno però sviluppato un altro sistema: la riproduzione sessuale. Con questo tipo di riproduzione non tutti i geni mutanti vengono eliminati, perché non tutti gli errori danno luogo ad alterazioni visibili. Nella popolazione rimane nascosta una riserva di varianti genetiche. Prendendo da essa e rimescolando i geni, la riproduzione sessuale è un’occasione per sperimentare alternative, alcune delle quali possono dimostrarsi utili al sopraggiungere di un cambiamento ambientale. In sostanza la natura si comporta come un operatore finanziario che deve investire un capitale e, per salvaguardarsi dalle incertezze del futuro, distribuisce il rischio su più fronti: acquista un po’ di obbligazioni ma anche titoli di Stato, fondi, immobili. Così, se il prezzo delle case crolla, non perde tutto. La riproduzione sessuale opera con modalità simili. Il capitale è rappresentato dal numero degli individui, gli acquisti dalle diverse configurazioni di geni. Se alcune di esse non si adattano bene ai cambiamenti ce ne sarà però sempre qualcuna che riesce a sopravvivere.

La morte serve alla vita
Senza la morte per vecchiaia questo non sarebbe possibile. La sopravvivenza degli individui anziani sottrarrebbe risorse ai giovani e diminuirebbero le opportunità di diversificazione della popolazione. Sarebbe come se il nostro mercato finanziario fosse monopolizzato da un solo gruppo di investitori, che modificano poco gli acquisti. Se qualcosa va male, può esserci un tracollo economico. La morte per vecchiaia corrisponde a un ricambio degli investitori, e quindi mantiene alta la riserva di possibilità di adattamento. La durata limitata delle generazioni è quindi una strategia abbinata alla riproduzione sessuale. Ma se la morte è una strategia, come ha fatto la natura a introdurla? Secondo gli ultimi studi esistono “geni della morte”, che limitano il numero di divisioni cellulari e sono responsabili del deperimento dell’organismo. Ma lavorano anche per la sua vita. Per esempio, la morte cellulare ostacola la crescita dei tumori. Un’altra clamorosa scoperta riguarda i “geni della sopravvivenza”, le cui istruzioni contrastano quelle dei geni della morte. In loro assenza la mortalità delle cellule sarebbe eccessiva e l’individuo non arriverebbe all’età riproduttiva. Fra i geni sembra quasi svolgersi una specie di tiro alla fune.

Prevedere la propria fine
Quindi, quegli stessi geni che, facendo morire alcune cellule, operano per l’armonia dell’intero organismo, finiscono per portare a morte l’individuo vecchio, che ha già dato il suo contributo alla riserva genetica. Studiando questi geni sarà possibile prevedere la data di morte degli individui? O addirittura bloccare il processo di invecchiamento? Difficile, perché questi meccanismi sono molto complessi. E forse dovremmo dire: per fortuna.

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Come fa un’unica cellula a diventare un bambino?

Ci sono supergeni, i “geni architetto”, che sovrintendono ai lavori. In futuro, grazie a loro, potremo rigenerare interi organi.

Fino a pochi anni fa solo la religione dava spiegazione di come un uovo fecondato, una sola cellula quindi, potesse in pochi mesi nell’utero materno diventare un organismo complesso, fatto di 350 tipi diversi di cellule. Oggi, anche se ancora manca qualche tassello, la biologia è in grado di offrire una ricostruzione accurata del processo. Certo, si tratta di un fenomeno complesso e meraviglioso. Basta pensare alla differenza tra le cellule che fanno pulsare il cuore e quelle che fabbricano l’insulina nel pancreas. Diversi i compiti, e diversi gli indirizzi nello stradario del corpo umano. Chi insegna loro a comportarsi così e a raggiungere la posizione giusta nell’organismo?

Occhi sulla coda
Già da quarant’anni si sa che le istruzioni per costruire il corpo sono contenute nei geni, e che ogni cellula contiene tutti i geni necessari per costruire un organismo completo. Ma chi decide quali cellule far sviluppare in un cuore e quali in un piede, o dove sta la testa e dove la coda? Negli ultimi anni gli scienziati hanno scoperto che alcuni geni sovrintendono al lavoro degli altri: sono i cosiddetti “geni architetto” e sono simili nella maggior parte delle specie viventi, dai moscerini all’uomo. Alcuni decidono dove sarà il capo; altri dove sarà il tronco con le braccia, le ali o le pinne; altri dove sarà l’addome. Organizzato questo abbozzo, si passa ai particolari. Altri geni decidono quanti occhi e quanto cervello devono esserci, e dove devono formarsi. Oggi questi geni sono stati anche identificati. Antonio Simeone, del Cnr di Napoli, ha provato per esempio a spegnere un gene architetto, chiamato Otx 2, in alcuni embrioni di topo: non sono più nati. Walter Gehring, dell’università di Zurigo, ha scoperto che se si accende un gene architetto degli occhi (detto “eyeless”) nel posto sbagliato, per esempio nelle cellule destinate a diventare ali o antenne, gli animali nascono con occhi collocati su ali o antenne.

Organi di ricambio
Come mandano i loro ordini questi geni? Le istruzioni sono contenute in proteine fabbricate dalle cellule. Alcune sono chiamate fattori di crescita e danno alle cellule l’ordine di moltiplicarsi. Altre sono proteine adesive, che attaccano una cellula all’altra. Altre ancora, come calamite, attirano le cellule al posto giusto. Cheryl Tickle, di Londra, spennellando con una proteina l’area corrispondente al futuro costato di embrioni di pollo, è riuscita ad accendere il gene architetto dell’ala, e lì, a metà strada fra zampa e ala, è cresciuto ai polli un arto in più. Con un procedimento analogo, Steve Di Nardo della Rockefeller University di New York ha fatto nascere una mosca “biplano”, con quattro ali. Alla base dell’embriogenesi vi sono pochi meccanismi fondamentali, fra dieci anni dovremmo saperne abbastanza delle regole di costruzione dell’embrione da poterle copiare per far ricrescere i nervi lesi da traumi. Ed entro 50 anni rigenereremo interi organi, come il fegato. Allora saranno inutili i trapianti: gli organi di ricambio rinasceranno, funzionanti.

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